Quaderno I (XVI) § (116) Intellettuali italiani
Confronto tra la concentrazione culturale francese, che si riassume nell’«Istituto di Francia» e la non coordinazione italiana. Riviste di cultura francesi e italiane (tipo «Nuova Antologia» – «Revue des deux mondes»). Giornali quotidiani italiani molto meglio fatti che i francesi: essi compiono due funzioni – quella di informazione e di direzione politica generale e la funzione di cultura politica, letteraria, artistica, scientifica che non ha un suo organo proprio diffuso (la piccola rivista per la media cultura). In Francia anzi anche la prima funzione si è distinta in due serie di quotidiani: quelli di informazione e quelli di opinione che a loro volta sono dipendenti da partiti direttamente, oppure hanno una apparenza di imparzialità («Action Française» – «Temps» – «Débats). In Italia, per l’assenza di partiti organizzati e centralizzati, non si può prescindere dai giornali: sono i giornali, raggruppati a serie, che costituiscono i veri partiti. Per esempio, nel dopoguerra, Giolitti aveva una serie di giornali che rappresentavano le varie correnti o frazioni del partito liberale democratico: la «Stampa» a Torino, che cercava d’influire sugli operai e aveva saltuariamente spiccate tendenze riformistiche (nella «Stampa» tutte le posizioni erano saltuarie, intermittenti, a seconda che Giolitti era o non era al potere ecc.); la «Tribuna» a Roma che era legata alla burocrazia e all’industria protezionista (mentre la «Stampa» era piuttosto liberista – quando Giolitti non era al potere con maggiore accentuazione); il «Mattino» a Napoli legato alle cricche meridionali giolittiane, con altri organi minori (la «Stampa» per certa collaborazione e servizi d’informazione era alla testa di un trust giornalistico di cui facevano parte specialmente il «Mattino», la «Nazione» e anche il «Resto del Carlino»). Il «Corriere della Sera» formava una corrente a sé, che cercava di essere in Italia ciò che (è) il «Times» in Inghilterra, custode dei valori nazionali al di sopra delle singole correnti. Di fatto era legato all’industria lombarda d’esportazione tessile (e gomma), e perciò più permanentemente liberista: nel dopoguerra il «Corriere» era alla destra del Nittismo (dopo aver sostenuto Salandra). Il Nittismo aveva anch’esso una serie di giornali: il «Corriere» a destra, il «Carlino» al centro destra, [il «Mondo» al centro sinistra,] il «Paese» alla sinistra. Il Nittismo aveva due aspetti: plutocratico, legato all’industria protetta e di sinistra. Una posizione a parte occupava il «Giornale d’Italia», legato all’industria protetta e ai grandi proprietari terrieri dell’Emilia, del Centro e del Mezzogiorno. È interessante notare che i grandi giornali che rappresentavano la tradizione del Partito d’Azione – «Secolo» a Milano, «Gazzetta del Popolo» a Torino, «Messaggero» a Roma, «Roma» a Napoli – ebbero dal 21 al 25 un atteggiamento diverso dalla «Stampa», dal «Corriere», dal «Giornale d’Italia» – «Tribuna», dal «Mattino» e anche dal «Resto del Carlino». Il «Corriere» fu sempre antigiolittiano, come ho spiegato in una precedente nota. Anche al tempo della guerra libica, il «Corriere» si tenne neutrale fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, quando pubblicò l’articolo di Andrea Torre, rumoroso e pieno di strafalcioni. Il Nittismo era ancora una formazione politica in fieri: ma Nitti mancava di alcune doti essenziali dell’uomo di Stato, era troppo pauroso fisicamente e troppo poco deciso: egli era però molto furbo, ma è questa una qualità subalterna. La creazione della Guardia Regia è il solo atto politico importante di Nitti: Nitti voleva creare un parlamentarismo di tipo francese (è da notare come Giolitti cercasse sempre le crisi extraparlamentari: Giolitti con questo «trucco» voleva mantenere formalmente intatto il diritto regio di nominare ministri all’infuori o almeno a latere del Parlamento; in ogni caso impedire che il governo fosse troppo legato e esclusivamente legato al Parlamento), ma si poneva il problema delle forze armate e di un possibile colpo di Stato. Poiché i carabinieri dipendevano disciplinarmente e politicamente dal Ministero della Guerra, cioè dallo Stato Maggiore (anche se finanziariamente dal ministero degli interni), Nitti creò la Guardia Regia, come forza armata dipendente dal Parlamento, come contrappeso contro ogni velleità di colpo di Stato. Per uno strano paradosso la Guardia Regia, che era un completo esercito professionale, cioè di tipo reazionario, doveva avere una funzione democratica, come forza armata della rappresentanza nazionale contro i possibili tentativi delle forze irresponsabili e reazionarie. È da notare la occulta lotta svoltasi nel 1922 tra nazionalisti e democratici intorno ai carabinieri e alla guardia regia. I liberali sotto la maschera di Facta volevano ridurre il corpo dei carabinieri o incorporarne una gran parte (il 50%) nella guardia regia. I nazionalisti reagiscono e al Senato il generale Giardino parla contro la Guardia Regia, e ne fa sciogliere la cavalleria (ricordare la comica e miserevole difesa che di questa cavalleria fece il «Paese»: il prestigio del cavallo, ecc. ecc.). Le direttive di Nitti erano molto confuse: nel 1918, quand’era ministro del Tesoro, fece una campagna oratoria sostenendo la industrializzazione accelerata dell’Italia, e sballando grosse fanfaluche sulle ricchezze minerarie di ferro e carbone del parse (il ferro era quello di Cogne, il carbone era la lignite toscana: il Nitti giunse a sostenere che l’Italia poteva esportare questi minerali, dopo aver soddisfatto una sua industria decuplicata; cfr a questo proposito l’Italia in rissa di F. Ciccotti). Sostenne, prima dell’armistizio, la polizza ai combattenti, di 1000 lire, acquistando la simpatia dei contadini. Significato dell’amnistia ai disertori (italiani all’estero che non avrebbero più mandato rimesse, di cui la Banca di Sconto aveva quasi il monopolio). Discorso di Nitti sulla impossibilità tecnica della rivoluzione in Italia, che produsse un effetto folgorante nel partito socialista (cfr il discorso di Nitti con la lettera aperta di Serrati del novembre o dicembre 1920). La Guardia Regia era per il 90% di meridionali. Programma di Nitti dei bacini montani nell’Italia meridionale che produsse tanto entusiasmo. La morte del generale Ameglio, suicidatosi dopo un pubblico alterco col generale Tettoni, incaricato di una ispezione amministrativa sulla gestione della Cirenaica (Ameglio era il generalissimo della Guardia Regia). La morte di Ameglio, per la sua tragicità, deve essere collegata al suicidio del generale Pollio nel 1914 (Pollio aveva, nel 1912, al momento del rinnovo della Triplice, firmato la convenzione militare-navale con la Germania che entrava in vigore il 6 agosto 1914: mi pare che proprio in base a questa convenzione l’Emden e il Göschen poterono rifugiarsi nel porto di Messina: cfr in proposito le pubblicazioni di Rerum Scriptor nella «Rivista delle Nazioni Latine» e nell’«Unità» del 17-18, che io riassunsi nel «Grido del Popolo»). Nelle sue memorie Salandra accenna alla morte «repentina» di Pollio (non scrive che fu suicidio): il famoso «Memorandum» di Cadorna, che Salandra dichiara di non aver conosciuto, deve rispecchiare le vedute dello Stato Maggiore sotto la gestione Pollio e in dipendenza della Convenzione del 1912; la dichiarazione di Salandra di non averlo conosciuto è estremamente importante e piena di significati sulla politica italiana e sulla reale situazione dell’elemento parlamentare nel governo. Nello studio dei giornali come funzionanti da partito politico occorre tener conto di singoli individui e della loro attività. Mario Missiroli è uno di questi. Ma i due tipi più interessanti sono Pippo Naldi e Francesco Ciccotti. Naldi ha cominciato come giovane liberale borelliano – collaboratore di piccole riviste liberali – direttore del «Resto del Carlino» e del «Tempo»: è stato un agente importantissimo di Giolitti e di Nitti; legato ai fratelli Perrone e certamente ad altri grossi affaristi; durante la guerra e la sua attività è delle più misteriose. L’attività di Ciccotti è delle più complesse e difficili, sebbene il suo valore personale sia mediocre. Durante la guerra ebbe atteggiamenti disparati: fu sempre un agente di Nitti o per qualche tempo anche di Giolitti? A Torino nel 16-17 era assolutamente disfattista; egli invitava all’azione immediata. Se si può parlare di responsabilità individuali per i fatti dell’agosto 17, Ciccotti avrebbe dovuto ritenersi il più responsabile: invece fu appena interrogato dal giudice istruttore e non si procedette contro di lui. Ricordo la sua conferenza del 16 o del 17, dopo la quale furono arrestati un centinaio di giovani e adulti accusati di aver gridato «Evviva l’Austria!». Non credo che il grido sia stato emesso da nessuno, ma dopo la conferenza di Ciccotti non sarebbe stato strano che qualcuno avesse anche emesso questo grido. Ciccotti cominciò la sua conferenza dicendo che i socialisti erano responsabili di una grave colpa; aver affermato che la guerra era capitalistica. Secondo Ciccotti questo significava nobilitare la guerra. Egli allora, con una sottigliezza rimarchevole nell’abilità di suscitare i sentimenti popolari elementari, sviluppò un romanzo d’appendice a forti tinte che cominciava su per giù così: – la sera tale si riunirono al caffè Faraglino Vincenzo Morello (Rastignac), il senatore Artom e un terzo che non ricordo ecc. ecc.: la guerra era dovuta alla congiura di questi tre e ai denari di Barrère. – Ricordo d’aver visto alcuni operai che conoscevo come gente calmissima e temperata coi capelli rizzati in testa, frenetici, uscire dalla sala, dopo la perorazione, in uno stato di eccitazione incredibile. Il giorno dopo la «Stampa» pubblicava un articolo non firmato, scritto da Ciccotti, in cui si sosteneva la necessità del blocco tra Giolitti e gli operai in tempo prima che l’apparecchio statale cadesse completamente nelle mani dei pugliesi di Salandra. Qualche giorno dopo la «Giustizia» di Reggio Emilia pubblicava il resoconto di una conferenza di Ciccotti a Reggio, dove aveva esaltato il prampolinismo ecc. Ricordo che mostrai questo giornale ad alcuni «rigidi» i quali erano infatuati di Ciccotti e volevano si sostenesse (certo per istigazione del Ciccotti stesso) una campagna per dare l’«Avanti!» a Ciccotti. Nessuno ha studiato ancora a fondo i fatti di Torino dell’agosto 17. È certissimo che i fatti furono spontanei e dovuti alla mancanza di pane prolungata, che negli ultimi dieci giorni prima dei fatti, aveva determinato la mancanza assoluta di ogni cibo popolare (riso, polenta, patate, legumi ecc.). Ma la quistione è appunto questa: come spiegare questa assoluta deficienza di vettovaglie) (Assoluta: nella casa dove abitavo io si erano saltati tre pasti di fila, dopo un mese in cui i pasti saltati erano andati crescendo, ed era una casa del centro). Il prefetto Verdinois nell’autodifesa pubblicata nel 1925, non dà ragguagli sufficienti; il ministro Orlando richiamò solo amministrativamente il Verdinois e nel discorso alla Camera se la cavò male anch’egli; intanto non fu fatta nessuna inchiesta. Il Verdinois accusa gli operai, ma la sua accusa è una cosa inetta: egli dice che i fatti non avevano come causa la mancanza di pane perché continuarono anche quando fu dato in vendita il pane fatto con la farina dei depositi militari. La «Gazzetta del Popolo» però, già da 20 giorni, prevedeva gravi fatti per la mancanza di pane e avvertiva quotidianamente di provvedere a tempo: naturalmente cambiò tono dopo e parlò solo di denaro straniero. Come fu lasciato mancare il pane a una città, la cui provincia è scarsamente coltivata a grano e che era diventata una grande officina di guerra, con una popolazione accresciuta di più di 100.000 lavoratori per le munizioni? Io ho avuto la convinzione che la mancanza di pane non fu casuale, ma dovuta al sabotaggio della burocrazia giolittiana, e in parte all’inettitudine di Canepa, che né aveva la capacità per il suo ufficio, né era in grado di padroneggiare la burocrazia dipendente dal suo commissariato.
I giolittiani erano di un fanatismo tedescofilo incredibile: essi sapevano che Giolitti non poteva andare ancora al potere, ma volevano creare un anello intermedio, Nitti o Orlando, e rovesciare Boselli; il meccanismo funzionò tardi, quando Orlando era già al potere, ma il fatto {era stato} preparato {per} far cadere il governo Boselli su una pozza di sangue torinese. Perché fu scelta Torino? Perché era quasi tutta neutralista, perché Torino aveva scioperato nel 15, ma specialmente perché i fatti avevano importanza specialmente a Torino. Ciccotti fu il principale agente di questo affare; egli andava troppo spesso a Torino e non sempre per far conferenze agli operai, ma anche per parlare con quei della «Stampa». Non credo che i giolittiani fossero in collegamento con la Germania: ciò non era indispensabile. Il loro livore era tale per i fatti di Roma del 15 e perché pensavano che l’egemonia piemontese sarebbe stata fortemente scossa o addirittura spezzata, che essi erano capaci di tutto: il processo di Portogruaro contro Frassati e l’affare del colonnello Ganba mostrano solo che questa gente aveva perduto ogni controllo. Bisogna aver visto la soddisfazione con cui i redattori della «Stampa», dopo Caporetto, parlavano del panico che regnava a Milano nei dirigenti e della decisione del «Corriere» di trasportar via tutto il suo impianto, per comprendere di che potevano essere capaci: indubbiamente i giolittiani avevano avuto paura di una dittatura militare che li mettesse al muro; essi parlavano di una congiura Cadorna-Albertini per fare un colpo di Stato; la loro smania di giungere a un accordo coi socialisti era incredibile. Ciccotti durante la guerra servì di tramite per pubblicare nell’«Avanti!» articoli del Controllo Democratico inglese (gli articoli li riceveva la signora Chiaraviglio). Ricordo il racconto di Settati del suo incontro a Londra con una signora che lo voleva ringraziare a nome del Comitato e la meraviglia del povero uomo, che fra questi intrighi non sapeva che decisioni prendere. Altro aneddoto raccontato da Serrati: l’articolo di Ciccotti contro la Commerciale lasciato passare, l’articolo contro la Sconto censurato; il commento di Ciccotti a un discorso di Nitti prima censurato, poi permesso dopo telefonata di Ciccotti che si richiamava a {una} promessa di Nitti e non pubblicato da Serrati ecc. Ma l’episodio più interessante è quello dei Gesuiti che attraverso Ciccotti cercavano di far cessare la campagna per i SS. Martiri: cosa avranno dato in cambio i Gesuiti a Ciccotti? Ma nonostante tutto Ciccotti non venne espulso, perché bisognava dargli l’indennità giornalistica. Un altro di questi tipi è stato Carlo Bazzi.