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Ricordo di Elio Quercioli Il partigiano dell’unità democratica

di Gianni Cervetti
Il mio rapporto con Elio Quercioli è stato molto intenso e a tratti quasi simbiotico, ma non sempre facile poiché tra di noi ci sono state differenze, divergenze e persino scontri politici, come sanno alcuni di voi, e tra gli altri, coloro che nella Federazione comunista milanese, qui presenti, ebbero il ruolo di segretari:
Rodolfo Bollini, Roberto Vitali, Luigi Corbani.
Per questi motivi mi è difficile descrivere in un breve intervento la sua figura e, in particolare, proporre a voi il ritratto che io mi sono disegnato di lui. Ma sono costretto a farlo in questa occasione per evidenti motivi di tempo.

Nel parlare, quindi, di Elio Quercioli vorrei soffermarmi su due o tre aspetti, caratteristiche, questioni che, a mio parere, ben configurano la sua personalità.
Come è forse noto, nel Partito comunista vigeva la consuetudine o norma organizzativa di fare compilare ai militanti e, soprattutto, ai dirigenti delle note autobiografiche.
Anche Quercioli si sottopose varie volte a questa pratica nella sua vita politica. La prima nota autobiografica che compilò risale al 7 ottobre 1945. Elio aveva diciannove anni. 
Aveva, però, alle spalle una notevole attività politica. Aveva aderito al Partito comunista due anni prima, nell’agosto del ’43, nel breve periodo badogliano di semilibertà dei partiti. 
L’adesione era avvenuta a Venezia dove egli, milanese, si trovava presso parenti del ramo famigliare materno e frequentava il liceo classico.
Lo aveva presentato e ne era stato garante presso l’organizzazione comunista una personalità già assai conosciuta di antifascista e comunista specialmente nell’ambiente veneziano, l’avvocato Gianquinto, che poi, alla Liberazione, sarebbe diventato sindaco della città.

Quercioli avrebbe successivamente partecipato alla Resistenza a Milano organizzando gruppi giovanili e in qualità di membro della 113a Brigata Garibaldi Sap con funzioni di caposquadra. Tra l’aprile e il luglio del 1944 avrebbe subito il carcere a San Vittore, «con deferimento» come scrive in quella prima sua nota autobiografica «al Tribunale speciale» senza tuttavia – precisa – essere torturato e prendendosi «soltanto delle sberle e dei calci».
In quella autobiografia è significativa un’altra annotazione. Alla domanda su il perché sia «d’accordo con la linea politica attuale del Partito», risponde con parole convinte di accettazione di una politica che ha «come obiettivo immediato la democrazia progressiva» aggiungendo e sottolineando subito dopo «e perché la politica di massa e unitaria risponde in pieno al compito nuovo del partito e agli interessi del proletariato».
È il linguaggio del tempo, ma la sottolineatura dei termini «di massa e unitaria» è appunto assai significativa poiché rimarca due caratteristiche che sono già allora e saranno ancora più in seguito, per Elio, non solo indispensabili nella politica del Partito, ma proprie della condotta e degli atteggiamenti suoi personali. Ad esse egli rimarrà costantemente fedele.
Del modo di intendere da parte sua il senso dell’espressione «di massa» è presto detto. Egli la identificherà nei valori popolari e anche per questo sarà sempre legato alle origini della propria esperienza umana. Ricorderà spesso il nonno paterno che da Civitella di Romagna era immigrato a Milano nel 1914 per entrare come valente operaio in una fabbrica allora famosa, le Rubinetterie, dove rimarràfino al 1945. «Anarchico e poi socialista attivo», così lo definirà lo stesso Elio in un altro scritto autobiografico.
Abiterà fino alla scomparsa in tarda età nelle case popolari di Porta Genova, precisamente al 26 di via Solari, il primo caseggiato della Società Umanitaria, dove cresceranno figli e nipoti. Elio vi avrà alloggio anche dopo sposato con la moglie Mimma Paulesu, figlia di Teresina Gramsci, sorella di Antonio, vi nascerà il figlio Mauro e lì vivrà fino agli anni Sessanta. È, per lui, appunto, l’ambiente popolare tipicamente milanese dell’infanzia, della giovinezza, in una parola delle origini, al quale si rifarà costantemente e che porterà sempre con sé.
Quanto all’altra espressione, cioè alla qualificazione «unitaria» della politica e dei suoi comportamenti, sono qui presenti Carlo Sangalli, che fu con lui fianco a fianco come deputato questore della Camera, e Carlo Tognoli, che da sindaco di Milano lo ebbe vicesindaco, i quali possono testimoniare sulle sue concezioni e sulla sua pratica.

Ma una personalità come Elio Quercioli, così come, del resto, ogni personalità di rilievo, non può essere ridotta a una o due caratteristiche. Naturalmente, non intendo qui riferirmi a un principio che lo stesso Elio espose, in un discorso dedicato aun suo grande amico, Mario Venanzi, poco dopo la scomparsa di questi. Mario Venanzi è una figura oggi purtroppo quasi dimenticata. Eppure egli, avvocato, fu attivo antifascista che in gioventù subì per sette anni il carcere; fu poi senatore e vicepresidente del Senato; soprattutto fu, per Milano, assessore alla Liberazione e autore del Piano regolatore della ricostruzione e, poi, a lungo capogruppo comunista a Palazzo Marino.
In quel discorso, Elio ne parla con riconoscenza e con affetto, tanto che racconta quanto gli era stato difficile, succeduttogli come capogruppo in Consiglio comunale, sedersi nel suo stesso seggio. Però, poi, aggiunge: «Quando si parla [per celebrare la figura] di qualcuno si corre il rischio sempre di esagerare nel dirne la qualità, ignorandone i difetti». E cerca di trovarglieli.

Anch’io vorrei fare così nei confronti di Elio, ma a me come a lui per Venanzi, riesce assai difficile.
Piuttosto, desidero richiamare qui qualche sua reale e apparente e simpatica contraddizione, la cui messa sotto i riflettori non gli sarebbe affatto dispiaciuta.
Elio fu sicuramente un rinnovatore nella vita del Pci. A Milano, negli anni dal ’54 al ’58, fu tra i massimi e più determinati artefici del processo di rinnovamento.
Inoltre, anche se non usò né per sé, né per gli altri l’appellativo di riformista egli, come annota il presidente Napolitano nel messaggio che avete ascoltato, riformista lo fu effettivamente perchè lo fu nella pratica e con coerenza. Eppure, a volte egli amava passare, e anzi sentirsi, conservatore, persino conservatore incallito. Per farlo usava il paradosso o il gesto e la frase scioccanti. Al riguardo, gli aneddoti si sprecano.

Una volta, a Genova, dopo una manifestazione politica nazionale del Partito, ci si incontrò per pranzare in una trattoria.
Al lungo tavolo erano seduti vari dirigenti del Pci, tra i quali ricordo Arturo Colombi e Pietro Ingrao. Elio e Fernando Di Giulio stavano nel mezzo della tavolata, uno di fronte all’altro. Di Giulio amava scherzare e, scherzando, duettare con Elio.
Quel giorno pensò di provocarlo sui temi scabrosi del maschilismo e, addirittura, del razzismo. E, a un certo punto, buttò lì un: «Sono certo che tu, se avessi avuto una figlia, non le avresti mai permesso di maritarsi con un nero».
Elio, accettando la provocazione, rispose senza tentennare: «Sì, sì, sull’argomento non ho mai avuto dubbi. Mia figlia sposa di un nero, ci mancherebbe altro».
Ingrao e Colombi strabuzzarono gli occhi. Gli altri astanti o manifestarono, increduli, la loro meraviglia, o attesero, sorridendo, gli sviluppi della pantomima. Allora, Di Giulio rincarò – si fa per dire – la dose con un «Beh, scommetto che tu sarai stato anche contro il voto alle donne».
Inaspettatamente, Elio rispose con un secco «no» accompagnato da un «tutt’altro, sono stato favorevole».
Di Giulio sinceramente sorpreso volle conoscere la motivazione e al suo «perché?» la risposta di Elio fu secca e precisa: «Semplice, se non avessero votato le donne, la Democrazia cristiana, non avrebbe vinto le elezioni del ’48 e noi saremmo stati nei guai». Ci fu chi ci rise sopra, ma chi prima aveva strabuzzato gli occhi, atteggiò l’espressione a severità e a compatimento.

Quando le tesi ambientaliste si trasformavano in schematismi o, addirittura, in fanatismi, Quercioli le prendeva di mira superando convintamente ogni segno. Chicco Testa e le sue posizioni antinucleariste erano oggetti preferiti delle sue invettive e delle sue maldicenze tanto che arrivò a scusarsi delle presunte o reali esagerazioni.
Spesso, poi, a proposito dell’inquinamento della nostra città, amava scioccare l’ascoltatore ricordando che in Africa, dove la natura non era costretta nelle angustie della civiltà moderna, soprattutto là dove gli alberi e le foreste potevano espandersi incontrastati, l’aspettativa di vita era indicibilmente bassa, mentre noi, respirando aria malsana, campiamo fino a età mai prima neppure immaginate.

L’antifascimo di Elio era assolutamente indiscusso e indiscutibile. Con i fascisti giunse più di una volta allo scontro fisico.
Alla Camera gli capitò di saltare i banchi e di dare una sonora sberla a un deputato missino che, secondo lui, si era espresso in modi provocatori.
Eppure, memorabili rimangono i suoi strali lanciati contro l’antifascismo di maniera e l’ostentazione di conoscenze e amicizie con vecchi e nuovi fascisti che considerava – come diceva – dei «democratici» più o meno mascherati.

La sua cultura era indubbiamente di tipo storicistico, anche con punte tradizionalistiche e con una certa dose di fastidio e di ripulsa verso forme e contenuti d’arte che reputava falsi perché «modernisti». In realtà, però, era un conoscitore e un estimatore della corrente futurista e, cosa che pochi sanno, un appassionato cultore di Filippo Tommaso Marinetti, specie per la sua opera poetica che aveva amato fin dagli anni giovanili.

Potrei continuare con altri aneddoti e altre riflessioni sulla complessa personalità di Elio. Concludo invece qui, sulla questione, con un cenno a un altro suo modo di fare – che non so se contraddittorio o soltanto sincero – prendendo spunto da una attività, il giornalismo, a cui teneva moltissimo.
In una lettera degli anni Novanta a Indro Montanelli così scrive: «Ho trascorso tutta la mia vita, cinquant’anni di iscrizione all’Albo, nel mondo dell’informazione». Prosegue, poi, rivendicando alcuni propri meriti per essere salito «come giornalista, dalla cronaca alla direzione dell’Unità» e per essere quindi stato come parlamentare «uno dei padri della legge di riforma della stampa» e di essere stato «sempre impegnato nella attività della Commissione di vigilanza dei servizi radiotelevisivi». A quest’ultimo riguardo, aggiunge inoltre: «All’epoca della solidarietà nazionale sono stato un lottizzatore».

Qui, però, se da un lato, dopo avere ricordato di essere stato oggetto di «critiche pubbliche dell’Unità, di Berlinguer e di Macaluso», ammette che, «forse allora ho davvero sbagliato e avevano ragione loro a criticarmi», dall’altro insiste sulle sue ragioni e ribadisce: «Credo che mi si debba riconoscere di avere contribuito ad affermare un principio che aveva ed ha un valore democratico generale», cioè il principio secondo cui «la RAI, il servizio pubblico, non poteva e non doveva essere espressione del governo e della sua maggioranza, ma … espressione dell’insieme del paese e perciò anche dell’opposizione».
Ecco, Elio era pure questo. Da un lato accettava il dialogo, la discussione, la critica se occorreva, tuttavia dall’altro ci teneva ad affermare, caparbiamente, le proprie opinioni e posizioni.

Detto tutto ciò sui caratteri, le doti e le contraddizioni della sua forte personalità, mi chiedo infine se ci sia, di lui, una chiave di lettura che in un certo senso permetta di aprire la porta a una migliore e complessiva congiunzione della sua figura e della sua opera. Ebbene, credo proprio di sì. Questa chiave consiste nel suo amore e nella sua profonda conoscenza di Milano e della realtà milanese. Intendiamoci, non si trattò, in lui, di finta milanesità.

Certo, egli parlò senza timori di «orgoglio ambrosiano» e ostentò, a volte, abitudini tipicamente milanesi.
Per esempio, citava le persone e si rivolgeva ai compagni chiamandoli per cognome, secondo un modo milanese oramai antico, e dicendo che l’uso del nome era una abitudine «romana» che denotava non tanto confidenza o amicizia, quanto piuttosto sciocco e irrispettoso familismo. Nella sua vera sostanza, però, l’amore e la conoscenza di Milano da parte di Quercioli erano profonda comprensione del ruolo e della funzione nazionali e internazionali della realtà milanese. Erano, anzi, una maniera per cercare di affermare tale funzione.
Testimoniano tutto ciò tante cose: le sue polemiche quando riteneva che il Partito non fosse attento alle istanze e alle peculiarità ‘milanesi’ o quando, al contrario, pensava a cedimenti dei comunisti milanesi verso estremismi, plebeismi e simili, che tra l’altro riteneva estranei allo spirito progressista e riformista della città, oppure ancora quando credeva di scorgere, sempre nei comunisti milanesi o lombardi, una insufficiente difesa della «autonomia» di Milano, argomentando, del resto, che solo attraverso questa gelosa affermazione di autonomia poteva venire un significativo contributo all’insieme della nazione e del Paese.
Lo testimoniano altresì le sue amicizie. Nei suoi amichevoli rapporti con personaggi quali Paolo Grassi, Giorgio Strelher, Nina Vinchi c’erano i connotati di sentimenti personali, ma c’era anche la condivisione e la affermazione del ruolo della cultura e della pratica teatrale di istituzioni ‘milanesi’ come il Piccolo e La Scala.

Termino con due considerazioni, diciamo così, fuori sacco. Verso Quercioli io ho un grande debito di riconoscenza.
Dovrei richiamare vari fatti, episodi e momenti, per i quali gli sono grato. Ne ricordo un paio.

Nei primi anni Cinquanta, studente liceale, fui incaricato da Elio, allora ormai veterano direttore regionale della «Voce Comunista», settimanale della Federazione milanese – lo era dal ’46 – , e da Quinto Bonazzola, autorevole redattore del giornale, di scrivere i miei primi articoli non come semplici insiemi di notizie infarcite di saccenti opinioni ma come frutti di indagini e di ricerche su avvenimenti della vita sociale. Non so quale fu il risultato. Né posso affermare che, malgrado i loro insegnamenti e la loro premura, mi addentrai nella attività giornalistica.
Posso, viceversa, dire che ciò mi aiutò a uscire dalle esperienze, magari popolari, inserite nell’ambiente famigliare e nella cerchia pur sempre ristretta delle prime prove politiche, per mettermi a contatto con i luoghi di lavoro – le fabbriche – e di ritrovo – i circoli ecc. – e più in generale per nserirmi e farmi conoscere la Milano del tempo.

Anni dopo, poi, fu Elio che mi coinvolse nelle sue amicizie e mi introdusse in ambienti e in realtà le più varie, senza la cui comprensione e vicinanza l’attività politica rimane astrusa e lo stesso interesse culturale si riduce, nel migliore di casi, a libresca supponenza.

Infine, la seconda e ultima considerazione mi è suggerita dall’atto che oggi qui si compie.
Sposetti e Cazzaniga – li nomino coi cognomi secondo puro stile quercioliano – hanno fatto benissimo a proporre e a insistere affinché la Fondazione, di cui stiamo inaugurando la sede, sia dedicata a Elio Quercioli.
Altrettanto bene si può dire dei propositi esposti da Cazzaniga circa i futuri programmi culturali della Fondazione.

Ma è appunto l’atto compiuto che suggerisce di impegnarsi perché Quercioli sia onorato in maniera anche più ampia dalla sua e nostra città in occasione, l’anno venturo, del decimo anniversario della sua scomparsa. Il diritto a un simile omaggio scaturisce da ciò che egli è stato – parlamentare milanese, vicesindaco –, e in virtù di ciò che ha fatto per Milano, ma la intitolazione a lui di un luogo ha una ragione ancora più semplice: è collegata alla cura che egli ebbe per onorare altri concittadini o italiani meritevoli.
In una lettera del 1988 a Luigi Corbani che lo aveva sostituito nella carica di vicesindaco e che presiedeva la Commissione toponomastica del Comune di Milano, Elio così scrive: «Mi auguro che tu riesca ... ad ottenere qualche risultato consegnando alla memoria della città alcuni nomi, che è utile e giustoricordare. Ciò a me, quando sono stato vice-sindaco, purtroppo non è riuscito. Sono intervenuto più volte … senza però alcun risultato positivo. Certamente non sarà facile nemmeno a te… ».
Quindi, per non rimanere nel vago segnala «alcuni nomi molti fra quelli dei padri della patria, dei capi della Resistenza, degli esponenti del mondo del lavoro e di amministratori della nostra città».
E i nomi che cita con il consueto intento unitario sono quelli di Togliatti, Nenni, Di Vittorio, Santi, Moro, Longo, Parri, Mattei, Bauer, Meda, Montagnani, Greppi, Cassinis.
Unire a essi il nome di Elio Quercioli è ora altrettanto doveroso, mentre l’impegno a ottenere domani «anche questo risultato» può rappresentare l’opportuna conclusione della nostra odierna cerimonia.

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