Q 16, 9 - Alcuni problemi per lo studio dello svolgimento della filosofia della praxis
§ Alcuni problemi per lo studio dello svolgimento della filosofia della praxis. La filosofia della praxis è stata un momento della cultura moderna; in una certa misura ne ha determinato o fecondato alcune correnti. Lo studio di questo fatto, molto importante e significativo, è stato trascurato o è addirittura ignorato dai così detti ortodossi e per la seguente ragione: che la combinazione filosofica più rilevante è avvenuta tra la filosofia della praxis e diverse tendenze idealistiche, ciò che ai così detti ortodossi, legati essenzialmente alla particolare corrente di cultura dell’ultimo quarto del secolo scorso (positivismo, scientismo) è parso un controsenso se non una furberia da ciarlatani (tuttavia nel saggio di Plekhanov su i Problemi fondamentali c’è qualche accenno a questo fatto, ma solamente sfiorato e senza tentativo alcuno di spiegazione critica). Per ciò pare sia necessario rivalutare la impostazione del problema così come fu tentata da Antonio Labriola.
È avvenuto questo: la filosofia della praxis ha subito realmente una doppia revisione, cioè è stata sussunta in una doppia combinazione filosofica. Da una parte, alcuni suoi elementi, in modo esplicito o implicito, sono stati assorbiti e incorporati da alcune correnti idealistiche (basta citare il Croce, il Gentile, il Sorel, lo stesso Bergson, il pragmatismo; dall’altra i così detti ortodossi, preoccupati di trovare una filosofia che fosse, secondo il loro punto di vista molto ristretto, più comprensiva di una «semplice» interpretazione della storia, hanno creduto di essere ortodossi, identificandola fondamentalmente nel materialismo tradizionale. Un’altra corrente è ritornata al kantismo (e si può citare, oltre il prof. Max Adler viennese, i due professori italiani Alfredo Poggi e Adelchi Baratono). Si può osservare, in generale, che le correnti che hanno tentato combinazioni della filosofia della praxis con tendenze idealistiche sono in grandissima parte di intellettuali «puri», mentre quella che ha costituito l’ortodossia era di personalità intellettuali più spiccatamente dedite all’attività pratica e quindi più legate (con legami più o meno estrinseci) alle grandi masse popolari (ciò che del resto non ha impedito alla più gran parte di fare capitomboli non di poca importanza storico-politica). Questa distinzione ha una grande portata. Gli intellettuali «puri», come elaboratori delle più estese ideologie delle classi dominanti, come leaders dei gruppi intellettuali dei loro paesi, non potevano non servirsi almeno di alcuni elementi della filosofia della praxis, per irrobustire le loro concezioni e moderare il soverchio filosofismo speculativo col realismo storicista della teoria nuova, per fornire di nuove armi l’arsenale del gruppo sociale cui erano legati. D’altra parte la tendenza ortodossa si trovava a lottare con l’ideologia più diffusa nelle masse popolari, il trascendentalismo religioso e credeva di superarlo solo col più crudo e banale materialismo che era anch’esso una stratificazione non indifferente del senso comune, mantenuta viva, più di quanto si credesse e si creda, dalla stessa religione che nel popolo ha una sua espressione triviale e bassa, superstiziosa e stregonesca, in cui la materia ha una funzione non piccola.
Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri per la sua affermazione (non sempre sicura, a dire il vero) che la filosofia della praxis è una filosofia indipendente e originale che ha in se stessa gli elementi di un ulteriore sviluppo per diventare da interpretazione della storia filosofia generale. Occorre lavorare appunto in questo senso, sviluppando la posizione di Antonio Labriola, di cui i libri di Rodolfo Mondolfo non paiono (almeno per quanto si ricorda) un coerente svolgimento. Pare che il Mondolfo non abbia mai abbandonato completamente il fondamentale punto di vista del positivismo di alunno di Roberto Ardìgò. Il libro del discepolo del Mondolfo, il Diambrini Palazzi (presentato da una prefazione del Mondolfo) sulla Filosofia di Antonio Labriola è un documento della povertà di concetti e di direttive dell’insegnamento universitario del Mondolfo stesso.
Perché la filosofia della praxis ha avuto questa sorte, di aver servito a formare combinazioni, coi suoi elementi principali, sia coll’idealismo che con il materialismo filosofico? Il lavoro di ricerca non può non essere complesso e delicato: domanda molta finezza nell’analisi e sobrietà intellettuale. Perché è molto facile lasciarsi prendere dalle somiglianze esteriori e non vedere le somiglianze nascoste e i nessi necessari ma camuffati. L’identificazione dei concetti che la filosofia della praxis ha «ceduto» alle filosofie tradizionali e per cui queste hanno trovato un qualche istante di ringiovanimento, deve essere fatta con molta cautela critica, e significa né più né meno che fare la storia della cultura moderna dopo l’attività dei fondatori della filosofia della praxis. L’assorbimento esplicito evidentemente non è difficile da rintracciare, quantunque anche esso debba essere analizzato criticamente. Un esempio classico è quello rappresentato dalla riduzione crociana della filosofia della praxis a canone empirico di ricerca storica, concetto che è penetrato anche fra i cattolici (cfr. il libro di mons. Olgiati), che ha contribuito a creare la scuola storiografica economico-giuridica italiana che si è diffusa anche fuori d’Italia. Ma la ricerca più difficile e delicata è quella degli assorbimenti «impliciti», non confessati, avvenuti appunto perché la filosofia della praxis è stata un momento della cultura moderna, un’atmosfera diffusa, che ha modificato i vecchi modi di pensare per azioni e reazioni non apparenti e non immediate. Lo studio del Sorel è specialmente interessante da questo punto di vista, perché attraverso il Sorel e la sua fortuna si possono avere molti indizi in proposito; così dicasi del Croce. Ma lo studio più importante pare debba essere quello della filosofia bergsoniana e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico della filosofia della praxis.Un altro aspetto della quistione è l’insegnamento pratico di scienza politica che la filosofia della praxis ha dato agli stessi avversari che la combattono aspramente per principio, così come i gesuiti combattevano teoricamente Machiavelli pur essendone in pratica i migliori discepoli. In una Opinione pubblicata da Mario Missiroli nella «Stampa» del tempo in cui fu corrispondente da Roma (intorno al 1925) si dice su per giù che sarebbe da vedere se nell’intimo della loro coscienza gli industriali più intelligenti non siano persuasi che l’Economia Critica non abbia visto molto bene nelle cose loro e non si servano degli insegnamenti così appresi. Tutto ciò non sarebbe per nulla sorprendente, perché se il fondatore della filosofia della praxis ha esattamente analizzato la realtà, egli non ha fatto che sistemare razionalmente e coerentemente ciò che gli agenti storici di questa realtà sentivano e sentono confusamente e istintivamente e di cui hanno preso maggior coscienza dopo la critica avversaria.
L’altro aspetto della quistione è ancor più interessante. Perché anche i così detti ortodossi hanno «combinato» la filosofia della praxis con altre filosofie e con una piuttosto che con altre in prevalenza? Infatti quella che conta è la combinazione col materialismo tradizionale; la combinazione col kantismo non ha avuto che un successo limitato e presso solo ristretti gruppi intellettuali. Sull’argomento è da vedere il saggio della Rosa sui Progressi e arresti nello sviluppo della filosofia della praxis che nota come le parti costituenti questa filosofia si siano sviluppate in misura diversa, ma sempre a seconda delle necessità dell’attività pratica. Cioè i fondatori della filosofia nuova avrebbero precorso di molto le necessità del loro tempo e anche di quello successivo, avrebbero creato un arsenale con armi che ancora non giovavano perché anacronistiche e che solo col tempo sarebbero state ripulite. La spiegazione è un po’ capziosa, in quanto non fa che dare in gran parte come spiegazione il fatto stesso da spiegare astrattizzato, tuttavia c’è in essa qualcosa di vero che si può approfondire. Una delle ragioni storiche pare sia da ricercare nel fatto che la filosofia della praxis ha dovuto allearsi con tendenze estranee per combattere i residui del mondo precapitalistico nelle masse popolari, specialmente nel terreno religioso. La filosofia della praxis aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, e educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni «didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica del tempo tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo. D’altra parte la cultura moderna, specialmente idealistica, non riesce a elaborare una cultura popolare, non riesce a dare un contenuto morale e scientifico ai propri programmi scolastici, che rimangono schemi astratti e teorici; essa rimane la cultura di una ristretta aristocrazia intellettuale, che talvolta ha presa sulla gioventù solo in quanto diventa politica immediata e occasionale.
È da vedere se questo modo di «schieramento» culturale non sia una necessità storica e se nella storia passata non si ritrovino schieramenti simili, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo. L’esempio classico e precedente alla modernità, è indubbiamente quello del Rinascimento in Italia e della Riforma nei paesi protestanti. Nel volume Storia dell’età barocca in Italia, a p. 11, il Croce scrive: «Il movimento della Rinascita era rimasto aristocratico, di circoli eletti, e nella stessa Italia, che ne fu madre e nutrice, non uscì dai circoli di corte, non penetrò fino al popolo, non divenne costume o “pregiudizio”, ossia collettiva persuasione e fede. La Riforma, invece, ebbe bensì questa efficacia di penetrazione popolare, ma la pagò con un ritardo del suo intrinseco sviluppo, con la lenta e più volte interrotta maturazione del suo germe vitale». E a p. 8: «E Lutero, come quegli umanisti, depreca la tristezza e celebra la letizia, condanna l’ozio e comanda il lavoro; ma, d’altra parte, è condotto a diffidenza e ostilità contro le lettere e gli studi, sicché Erasmo poté dire: ubicumque regnat lutheranismus, ibi literarum est interitus; e certo, se non proprio per solo effetto di quella avversione in cui era entrato il suo fondatore, il protestantesimo tedesco fu per un paio di secoli pressoché sterile negli studi, nella critica, nella filosofia. I riformatori italiani, segnatamente quelli del circolo di Giovanni de Valdès e i loro amici, riunirono invece senza sforzo l’umanesimo al misticismo, il culto degli studi all’austerità morale. Il calvinismo, con la sua dura concezione della grazia e la dura disciplina, neppur esso favorì la libera ricerca e il culto della bellezza, ma gli accadde, interpretando e svolgendo e adattando il concetto della grazia e quello della vocazione, di venire a promuovere energicamente la vita economica, la produzione e l’accrescimento della ricchezza». La riforma luterana e il calvinismo suscitarono un vasto movimento popolare-nazionale dove si diffusero, e solo in periodi successivi una cultura superiore; i riformatori italiani furono infecondi di grandi successi storici. È vero che anche la Riforma nella sua fase superiore necessariamente assunse i modi della Rinascita e come tale si diffuse anche nei paesi non protestanti dove non c’era stata l’incubazione popolare; ma la fase di sviluppo popolare ha permesso ai paesi protestanti di resistere tenacemente e vittoriosamente alla crociata degli eserciti cattolici e così nacque la nazione germanica come una delle più vigorose dell’Europa moderna. La Francia fu lacerata dalle guerre di religione con la vittoria apparente del cattolicismo, ma ebbe una grande riforma popolare nel Settecento con l’illuminismo, il voltairianismo, l’enciclopedia che precedé e accompagnò la rivoluzione del 1789; si trattò realmente di una grande riforma intellettuale e morale del popolo francese, più completa di quella tedesca luterana, perché abbracciò anche le grandi masse contadine della campagna, perché ebbe un fondo laico spiccato e tentò di sostituire alla religione una ideologia completamente laica rappresentata dal legame nazionale e patriottico; ma neanche essa ebbe una fioritura immediata di alta cultura, altro che per la scienza politica nella forma di scienza positiva del diritto. (Cfr. il paragone fatto da Hegel delle particolari forme nazionali assunte dalla stessa cultura in Francia e in Germania nel periodo della rivoluzione francese; concezione hegeliana che attraverso una catena un po’ lunga portò al famoso verso carducciano: «accomunati nella stessa fé, – decapitaro Emmanuel Kant iddio, Massimiliano Robespierre il re»).
Una concezione della filosofia della praxis come riforma popolare moderna (poiché sono dei puri astrattisti quelli che aspettano una riforma religiosa in Italia, una nuova edizione italiana del calvinismo, come Missiroli e C.) è stata forse intravista da Giorgio Sorel, un po’ (o molto) dispersamente, intellettualisticamente, per una specie di furore giansenistico contro le brutture del parlamentarismo e dei partiti politici. Sorel ha preso da Renan il concetto della necessità di una riforma intellettuale e morale, ha affermato (in una lettera al Missiroli) che spesso grandi movimenti storici non sono rappresentati da una cultura moderna ecc. Ma mi pare che una tale concezione sia implicita nel Sorel quando si serve del cristianesimo primitivo come termine di paragone, con molta letteratura, è vero, ma tuttavia con più di un granello di verità, con riferimenti meccanici e spesso artificiosi, ma tuttavia con qualche lampo di intuizione profonda. La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia. Attraversa ancora la sua fase popolaresca: suscitare un gruppo di intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo, con azioni e reazioni, con adesioni e dissoluzioni e nuove formazioni molto numerose e complesse: è la concezione di un gruppo sociale subalterno, senza iniziativa storica, che si amplia continuamente, ma disorganicamente, e senza poter oltrepassare un certo grado qualitativo che è sempre al di qua dal possesso dello Stato, dall’esercizio reale dell’egemonia su l’intera società che solo permette un certo equilibrio organico nello sviluppo del gruppo intellettuale. La filosofia della praxis è diventata anch’essa «pregiudizio» e «superstizione»; così come è, è l’aspetto popolare dello storicismo moderno, ma contiene in sé un principio di superamento di questo storicismo. Nella storia della cultura, che è molto più larga della storia della filosofia, ogni volta che la cultura popolare è affiorata, perché si attraversava una fase di rivolgimenti e dalla ganga popolare si selezionava il metallo di una nuova classe, si è avuta una fioritura di «materialismo», viceversa nello stesso momento le classi tradizionali si aggrappavano allo spiritualismo. Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita del pensiero, materialismo e spiritualismo, ma la sintesi fu «un uomo che cammina sulla testa». I continuatori di Hegel hanno distrutto quest’unità e si è ritornati ai sistemi materialistici da una parte e a quelli spiritualistici dall’altra. La filosofia della praxis, nel suo fondatore, ha rivissuto tutta questa esperienza, di hegelismo, feuerbacchismo, materialismo francese – per ricostruire la sintesi dell’unità dialettica: «l’uomo che cammina sulle gambe». Il laceramento avvenuto per l’hegelismo si è ripetuto per la filosofia della praxis, cioè dall’unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l’alta cultura moderna idealistica ha cercato di incorporare ciò che della filosofia della praxis le era indispensabile per trovare qualche nuovo elisir. «Politicamente» la concezione materialistica è vicina al popolo, al senso comune; essa è strettamente legata a molte credenze e pregiudizii, a quasi tutte le superstizioni popolari (stregonerie, spiriti, ecc.). Ciò si vede nel cattolicismo popolare e specialmente nell’ortodossia bizantina. La religione popolare è crassamente materialistica, tuttavia la religione ufficiale degli intellettuali cerca di impedire che si formino due religioni distinte, due strati separati, per non staccarsi dalle masse, per non diventare anche ufficialmente, come è realmente, una ideologia di ristretti gruppi. Ma da questo punto di vista, non bisogna far confusione tra l’atteggiamento della filosofia della praxis e quello del cattolicismo. Mentre quella mantiene un contatto dinamico e tende a sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore, quello tende a mantenere un contatto puramente meccanico, un’unità esteriore, basata specialmente sulla liturgia e sul culto più appariscentemente suggestivo sulle grandi folle. Molti tentativi ereticali furono manifestazioni di forze popolari per riformare la chiesa e avvicinarla al popolo, innalzando il popolo. La chiesa ha reagito spesso in forma violentissima, ha creato la Compagnia di Gesù, si è catafratta con le decisioni del Concilio di Trento, quantunque abbia organizzato un maraviglioso meccanismo di religione «democratica» dei suoi intellettuali, ma come singoli individui, non come espressione rappresentativa di gruppi popolari. Nella storia degli sviluppi culturali, occorre tenere uno speciale conto dell’organizzazione della cultura e del personale in cui tale organizzazione prende forma concreta. Nel volume di G. De Ruggiero su Rinascimento e Riforma si può vedere quale sia stato l’atteggiamento di moltissimi intellettuali, con a capo Erasmo: essi piegarono dinanzi alle persecuzioni e ai roghi. Il portatore della Riforma è stato perciò proprio il popolo tedesco nel suo complesso, come popolo indistinto, non gli intellettuali. Appunto questa diserzione degli intellettuali dinanzi al nemico spiega la «sterilità» della Riforma sulla sfera immediata dell’alta cultura, finché dalla massa popolare, rimasta fedele, non si seleziona lentamente un nuovo gruppo di intellettuali che culmina nella filosofia classica. Qualcosa di simile è avvenuto finora per la filosofia della praxis; i grandi intellettuali formatisi nel suo terreno, oltre ad essere poco numerosi, non erano legati al popolo, non sbocciarono dal popolo, ma furono l’espressione di classi intermedie tradizionali, alle quali ritornarono nelle grandi «svolte» storiche; altri rimasero, ma per sottoporre la nuova concezione a una sistematica revisione, non per procurarne lo sviluppo autonomo. L’affermazione che la filosofia della praxis è una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali. Ciò che volta per volta esiste è una combinazione variabile di vecchio e nuovo, un equilibrio momentaneo dei rapporti culturali corrispondente all’equilibrio dei rapporti sociali. Solo dopo la creazione dello Stato, il problema culturale si impone in tutta la sua complessità e tende a una soluzione coerente. In ogni caso l’atteggiamento precedente alla formazione statale non può non essere critico-polemico, e mai dogmatico, deve essere un atteggiamento romantico, ma di un romanticismo che consapevolmente aspira alla sua composta classicità.
Nota I. Studiare il periodo della Restaurazione come periodo di elaborazione di tutte le dottrine storicistiche moderne, compresa la filosofia della praxis che ne è il coronamento e che del resto fu elaborata proprio alla vigilia del 48, quando la Restaurazione crollava da ogni parte e il patto della Santa Alleanza andava in pezzi. È noto che Restaurazione è soltanto una espressione metaforica; in realtà non ci fu nessuna restaurazione effettuale dell’ancien regime, ma solo una nuova sistemazione di forze, in cui le conquiste rivoluzionarie delle classi medie furono limitate e codificate. Il re in Francia e il papa a Roma divennero capi dei rispettivi partiti e non più indiscussi rappresentanti della Francia o della cristianità. La posizione del papa fu specialmente scossa e da allora ha inizio la formazione di organismi permanenti dei «cattolici militanti» che dopo altre tappe intermedie: il 1848-49, il 1861 (quando avvenne la prima disgregazione dello Stato pontificio con l’annessione delle Legazioni emiliane), il 1870 e il dopoguerra, diventeranno la potente organizzazione dell’Azione Cattolica, potente, ma in posizione difensiva. Le teorie storicistiche della restaurazione si oppongono alle ideologie settecentesche, astrattiste e utopistiche, che continuano a vivere come filosofia, etica e politica proletaria, diffusa specialmente in Francia, fino al 1870. La filosofia della praxis si oppone a queste concezioni settecentesche-popolari come filosofia di massa, in tutte le loro forme, da quelle più infantili, a quella del Proudhon, che subisce un qualche innesto dello storicismo conservatore e che pare possa esser chiamato il Gioberti francese, ma delle classi popolari, per il rapporto di arretratezza della storia italiana in confronto a quella francese, come appare nel periodo del 1848. Se gli storicisti conservatori, tecnici del vecchio, sono ben piazzati per criticare il carattere utopistico delle ideologie giacobine mummificate, i filosofi della praxis sono meglio piazzati sia per apprezzare il valore storico reale e non astratto che il giacobinismo aveva avuto come elemento creatore della nuova nazione francese, cioè come fatto di attività circoscritte in determinate circostanze e non idoleggiate, sia per apprezzare il compito storico di questi stessi conservatori, che in realtà erano figli vergognosi dei giacobini, pur maledicendone gli eccessi mentre ne amministravano con cura l’eredità. La filosofia della praxis non solo pretendeva di spiegare e giustificare tutto il passato, ma di spiegare e giustificare storicamente anche se stessa, cioè era il massimo «storicismo», la liberazione totale da ogni «ideologismo» astratto, la reale conquista del mondo storico, l’inizio di una nuova civiltà.