Q 19, 24 - Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia

§ Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia. Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il così detto Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati: l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di «avere in tasca» il Partito d’Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto «indirettamente» da Cavour e dal Re. Il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente». I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il così detto «trasformismo» non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione senza rivoluzione» ossia come «rivoluzione passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.

In quali forme e con quali mezzi i moderati riuscirono a stabilire l’apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare «liberali», cioè attraverso l’iniziativa individuale, «molecolare», «privata» (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all’azione pratica e organizzativa). D’altronde, cioè era «normale», date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati dei quali i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico. Per il Partito d’Azione il problema si poneva in modo diverso e diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati. I moderati erano intellettuali «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, cioè i moderati erano un’avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione. Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca storico-politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali e quindi col creare un sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con legami di ordine psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico-giuridici, corporativi, ecc.).

Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività economico-produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.

Il Partito d’Azione non solo non poteva avere, data la sua natura, un simile potere di attrazione, ma era esso stesso attratto e influenzato, sia per l’atmosfera di intimidazione (panico di un 93 terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del 48-49) che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari (per esempio la riforma agraria), sia perché alcune delle sue maggior, personalità (Garibaldi) erano, sia pure saltuariamente (oscillazioni), in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre all’attività «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all’«attrazione spontanea» esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva «organizzate» secondo un piano.

Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati è da ricordare il formarsi e lo sviluppo del movimento «cattolico-liberale», che tanto impressionò il papato e in parte riuscì a paralizzarne le mosse, demoralizzandolo, in un primo tempo spingendolo troppo a sinistra – con le manifestazioni liberaleggianti di Pio IX – e in un secondo tempo cacciandolo in una posizione più destra di quella che avrebbe potuto occupare e in definitiva determinandone l’isolamento nella penisola e in Europa. Il papato ha dimostrato successivamente di aver appreso la lezione e ha saputo nei tempi più recenti manovrare brillantemente: il modernismo prima e il popolarismo poi sono movimenti simili a quello cattolico-liberale del Risorgimento, dovuti in gran parte al potere di attrazione spontanea esercitata dallo storicismo moderno degli intellettuali laici delle classi alte da una parte e dall’altra dal movimento pratico della filosofia della prassi. Il papato ha colpito il modernismo come tendenza riformatrice della Chiesa e della religione cattolica, ma ha sviluppato il popolarismo, cioè la base economico-sociale del modernismo e oggi con Pio XI fa di esso il fulcro della sua politica mondiale.

Invece il Partito d’Azione mancò addirittura di un programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d’Azione, gli odii tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona e la sua attività da parte dei più gagliardi uomini d’azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati dalla mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche (valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d’altronde commise errori politici e militari irreparabili, come l’opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola – limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza stessa. Si può fare un confronto tra i giacobini e il Partito d’Azione. I giacobini lottarono strenuamente per assicurare un legame tra città e campagna e ci riuscirono vittoriosamente. La loro sconfitta come partito determinato fu dovuta al fatto che a un certo punto si urtarono contro le esigenze degli operai parigini, ma essi in realtà furono continuati in altra forma da Napoleone e oggi, molto miseramente, dai radico-socialisti di Herriot e Daladier.

Nella letteratura politica francese la necessità di collegare la città (Parigi) con la campagna era sempre stata vivamente sentita ed espressa; basta ricordare la collana di romanzi di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia (il Fogazzaro nel Piccolo mondo antico mostra come Franco Maironi ricevesse clandestinamente dalla Svizzera le dispense dei Misteri del Popolo che furono bruciati per mano del carnefice in alcune città europee, per esempio a Vienna) e che insistono con particolare costanza sulla necessità di occuparsi dei contadini e di legarli a Parigi; e il Sue fu il romanziere popolare della tradizione politica giacobina e un «incunabolo» di Herriot e Daladier per tanti punti di vista (leggenda napoleonica, anticlericalismo e antigesuitismo, riformismo piccolo-borghese, teorie penitenziarie, ecc.). È vero che il Partito d’Azione fu sempre implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana (cfr. nella «Critica»,anno 1929, pp. 223 sgg., il saggio dell’Omodeo su Primato francese e iniziativa italiana), ma aveva nella storia della penisola la tradizione a cui risalire e ricollegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienze in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il feudalismo locale (è vero che la quistione è resa complessa dalla lotta tra borghesi e nobili per contendersi la mano d’opera a buon mercato: i borghesi hanno bisogno di mano d’opera abbondante ed essa può solo essere data dalle masse rurali, ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini: fuga di contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche in situazione diversa, appare, nello sviluppo della civiltà comunale, la funzione della città come elemento direttivo, della città che approfondisce i conflitti interni nella campagna e se ne serve come strumento politico-militare per abbattere il feudalismo). Ma il più classico maestro di arte politica per i gruppi dirigenti italiani, il Machiavelli, aveva anch’egli posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo suo; nelle scritture politico-militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura.

A questa corrente del Machiavelli deve forse essere legato Carlo Pisacane, per il quale il problema di soddisfare le rivendicazioni popolari (dopo averle suscitate con la propaganda) è visto prevalentemente dal punto di vista popolare militare. A proposito del Pisacane occorre analizzare alcune antinomie della sua concezione: il Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una serie di concetti politico-militari posti in circolazione dalle esperienze guerresche della rivoluzione francese e di Napoleone, trapiantati a Napoli sotto i regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone (nella commemorazione di Cadorna fatta da M. Missiroli nella «Nuova Antologia» si insiste sull’importanza che tale esperienza e tradizione militare napoletana, attraverso il Pianell, per esempio, ebbe nella riorganizzazione dell’esercito italiano dopo il 1870); Pisacane comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria, ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso Garibaldi lo stesso atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli Stati Maggiori dell’antico regime.

L’individualità che più occorre studiare per questi problemi del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, ma non tanto nelle sue opere così dette maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto negli opuscoli d’occasione e nelle lettere. Il Ferrari però era in gran parte fuori della concreta realtà italiana: si era troppo infranciosato. Spesso i suoi giudizi paiono più acuti di ciò che realmente sono, perché egli applicava all’Italia schemi francesi, i quali rappresentavano situazioni ben più avanzate di quelle italiane. Si può dire che il Ferrari si trovava, nei confronti con l’Italia, nella posizione di un «postero» e che il suo fosse in un certo senso un «senno del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore effettuale ed attuale; il Ferrari non vedeva che tra la situazione italiana e quella francese mancava un anello intermedio e che proprio questo anello importava saldare per passare a quello successivo. Il Ferrari non seppe «tradurre» il francese in italiano e perciò la sua stessa «acutezza» diventava un elemento di confusione, suscitava nuove sette e scolette ma non incideva nel movimento reale.

Se si approfondisce la quistione appare che, per molti riguardi, la differenza tra molti uomini del Partito d’Azione e i moderati era più di «temperamento» che di carattere organicamente politico. Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della rivoluzione francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e risolutezza, dipendente dalla credenza fanatica della bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale. Così quando si legge che Crispi fu un giacobino, è in questo significato deteriore che occorre intendere l’affermazione. Per il suo programma Crispi fu un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina più nobile fu l’unità politico-territoriale del paese. Questo principio fu sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento, in senso stretto, ma anche nel periodo successivo, della sua partecipazione al governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone: vede nei moderati gli uomini dell’ultima ora, gli eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se essi fossero divenuti costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare; egli si fidava poco di una unità fatta da non-unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli capisce sarà risolutamente unitaria per ragioni dinastiche e abbraccia il principio dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi. Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio: Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio e i tribunali marziali in Sicilia per il movimento dei Fasci e accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (pseudo-trattato di Bisacquino). Si lega strettamente ai latifondisti siciliani, perché il ceto più unitario per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale: egli non esita a gettare il Mezzogiorno e le isole in una crisi commerciale paurosa, pur di rafforzare l’industria che poteva dare al paese una indipendenza reale e avrebbe allargato i quadri del gruppo sociale dominante; è la politica di fabbricare il fabbricante. Il governo della destra dal ’61 al ’76 aveva solo e timidamente creato le condizioni generali esterne per lo sviluppo economico: sistemazione dell’apparato governativo, strade, ferrovie, telegrafi e aveva sanato le finanze oberate dai debiti per le guerre del Risorgimento. La Sinistra aveva cercato di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo unilaterale della Destra, ma non era riuscita che ad essere una valvola di sicurezza: aveva continuato la politica della Destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla nuova società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è caratterizzata tuttavia dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato; maneggiava una colubrina arrugginita come fosse stato un moderno pezzo d’artiglieria. Anche la politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del «giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base economico-finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi: così furono creati dopo il 1890 i grandi imperi coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il «mito» della terra facile.

Crispi ha dato una forte impronta a un vasto gruppo di intellettuali siciliani (specialmente, poiché ha influenzato tutti gli intellettuali italiani, creando le prime cellule di un socialismo nazionale che doveva svilupparsi più tardi impetuosamente), ha creato quel fanatismo unitario che ha determinato una permanente atmosfera di sospetto contro tutto ciò che può arieggiare a separatismo. Ciò però non ha impedito (e si comprende) che nel 1920 i latifondisti siciliani si riunissero a Palermo e pronunziassero un vero ultimatum contro il governo «di Roma», minacciando la separazione, come non ha impedito che parecchi di questi latifondisti abbiano continuato a mantenere la cittadinanza spagnola e abbiano fatto intervenire diplomaticamente il governo di Madrid (caso del duca di Bivona nel 1919) per la tutela dei loro interessi minacciati dall’agitazione dei contadini ex-combattenti. L’atteggiamento dei vari gruppi sociali del Mezzogiorno dal ’19 al ’26 serve a mettere in luce e in rilievo alcune debolezze dell’indirizzo ossessionatamente unitario di Crispi e a mettere in rilievo alcune correzioni apportatevi da Giolitti (poche in realtà, perché Giolitti si mantenne essenzialmente nel solco di Crispi; al giacobinismo di temperamento del Crispi, Giolitti sostituì la solerzia e la continuità burocratica; mantenne il «miraggio della terra» nella politica coloniale, ma in più sorresse questa politica con una concezione «difensiva» militare e con la premessa che occorre creare le condizioni di libertà d’espansione per il futuro). L’episodio dell’ultimatum dei latifondisti siciliani nel 1920 non è isolato e di esso potrebbe darsi altra interpretazione, per il precedente delle alte classi lombarde che in qualche occasione avevano minacciato «di far da sé» ricostituendo l’antico ducato di Milano (politica di ricatto momentaneo verso il governo), se non trovasse una interpretazione autentica nelle campagne fatte dal «Mattino» dal 1919 fino alla defenestrazione dei fratelli Scarfoglio, che sarebbe troppo semplicistico ritenere del tutto campate in aria, cioè non legate in qualche modo a correnti d’opinione pubblica e a stati d’animo rimasti sotterranei, latenti, potenziali per l’atmosfera d’intimidazione creata dall’unitarismo ossessionato. Il «Mattino» a due riprese sostenne questa tesi: che il Mezzogiorno è entrato a far parte dello Stato italiano su una base contrattuale, lo Statuto albertino, ma che (implicitamente) continua a conservare una sua personalità reale, di fatto, e ha il diritto di uscire dal nesso statale unitario se la base contrattuale viene, in qualsiasi modo, menomata, se cioè viene mutata la costituzione del ’48. Questa tesi fu svolta nel ’19-20 contro un mutamento costituzionale in un certo senso, e fu ripresa nel ’24-25 contro un mutamento in altro senso. Bisogna tener presente l’importanza che aveva il «Mattino» nel Mezzogiorno (era intanto il giornale più diffuso); il «Mattino» fu sempre crispino, espansionista, dando il tono all’ideologia meridionale, creata dalla fame di terra e dalle sofferenze dell’emigrazione, tendente verso ogni vaga forma di colonialismo di popolamento. Del «Mattino» occorre ricordare inoltre: 1°) la violentissima campagna contro il Nord a proposito del tentativo di manomissione da parte dei tessili lombardi di alcune industrie cotoniere meridionali, giunto fino al punto in cui si stava per trasportare le macchine in Lombardia, truccate da ferro vecchio per eludere la legislazione sulle zone industriali, tentativo sventato appunto dal giornale che giunse fino a fare una esaltazione dei Borboni e della loro politica economica (ciò avvenne nel 1923); 2) la commemorazione «accorata» e «nostalgica» di Maria Sofia fatta nel 1925 e che destò scalpore e scandalo.

È certo che per apprezzare questo atteggiamento del «Mattino» occorre tener conto di alcuni elementi di controllo metodico: il carattere avventuroso e la venalità degli Scarfoglio (è da ricordare che Maria Sofia cercò continuamente di intervenire nella politica interna italiana, per spirito di vendetta se non con la speranza di restaurare il regno di Napoli, spendendo anche quattrini come non pare dubbio: nell’«Unità» del 1914 o 15 fu pubblicato un trafiletto contro Errico Malatesta in cui si affermava che gli avvenimenti del giugno 1914 potevano essere stati patrocinati e sussidiati dallo Stato Maggiore austriaco per il tramite di Zita di Borbone, dati i rapporti di «amicizia», pare non interrotta mai, tra il Malatesta e Maria Sofia; nell’opera Uomini e cose della vecchia Italia, B. Croce ritorna su tali rapporti a proposito di un tentativo per far evadere un anarchico che aveva commesso un attentato, seguito da un passo diplomatico del governo italiano presso il governo francese per far cessare queste attività di Maria Sofia; ricordare inoltre gli aneddoti su Maria Sofia raccontati dalla signora B. che nel 1919 frequentò l’ex regina per farle il ritratto; infine Malatesta non rispose mai a queste accuse, come era suo obbligo, a meno non sia vero che egli vi abbia risposto in una lettera a un giornaletto clandestino, stampato in Francia da P. Schicchi e intitolato «Il Picconiere», cosa molto dubbia), il dilettantismo politico e ideologico degli Scarfoglio. Ma occorre insistere sul fatto che il «Mattino» era il giornale più diffuso del Mezzogiorno e che gli Scarfoglio erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quell’intuizione rapida e «simpatica» delle correnti passionali popolari più profonde che rende possibile la diffusione della stampa gialla.

Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.) assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (cfr. i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che più grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno. Nel Congresso Sardo del 1911, tenuto sotto la presidenza del generale Rugiu, si calcola quante centinaia di milioni siano stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di Stato unitario, a favore del continente. Campagne del Salvemini, culminate nella fondazione dell’«Unità», ma condotte già nella «Voce» (cfr. numero unico della «Voce» sulla «Quistione meridionale» ristampato poi in opuscolo): in Sardegna si inizia un movimento autonomistico, sotto la direzione di Umberto Cau, che ebbe anche un giornale quotidiano «Il Paese». In questo inizio di secolo si realizza anche un certo «blocco intellettuale», «panitaliano» con a capo B. Croce e Giustino Fortunato, che cerca di imporre la quistione meridionale come problema nazionale capace di rinnovare la vita politica e parlamentare. In ogni rivista di giovani che abbiano tendenze liberali democratiche e in generale si propongano di svecchiare e sprovincializzare la vita e la cultura nazionale, in tutti i campi, nell’arte, nella letteratura, nella politica, appare non solo l’influsso del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione; così nella «Voce» e nell’«Unità», ma anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione Liberale» di Milano, nel movimento giovane liberale guidato da Giovanni Borelli ecc. L’influsso di questo blocco si fa strada nel fissare la linea politica del «Corriere della Sera» di Albertini, e nel dopoguerra, data la nuova situazione, appare nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli, e anche Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione del Croce nell’ultimo governo Giolitti.

Di questo movimento, certo molto complesso e multilaterale, viene data oggi una interpretazione tendenziosa anche da G. Prezzolini che pure ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura italiana dello stesso Prezzolini (1923) specialmente con le sue omissioni, come documento autentico.

Il movimento si sviluppa fino al suo maximum che è anche il suo punto di dissoluzione: questo punto è da identificare nella particolare presa di posizione di P. Gobetti e nelle sue iniziative culturali: la polemica di Giovanni Ansaldo (e dei suoi collaboratori come «Calcante» ossia Francesco Ciccotti) contro Guido Dorso è il documento più espressivo di tale punto d’approdo e di risoluzione, anche per la comicità che ormai appare evidente negli atteggiamenti gladiatori e di intimidazione dell’unitarismo ossessionato (che l’Ansaldo, nel ’25-26, credesse di poter far credere a un ritorno dei Borboni a Napoli, sembrerebbe inconcepibile senza la conoscenza di tutti gli antecedenti della quistione e delle vie sotterranee attraverso cui avvenivano le polemiche, per sottinteso e per riferimento enigmistico ai non «iniziati»: tuttavia è notevole che anche in alcuni elementi popolari, che avevano letto Oriani, esisteva allora la paura che a Napoli fosse possibile una restaurazione borbonica e quindi una dissoluzione più estesa del nesso statale unitario).

Da questa serie di osservazioni e di analisi di alcuni elementi della storia italiana dopo l’unità si possono ricavare alcuni criteri per apprezzare la posizione di contrasto tra i moderati e il Partito d’Azione, e per ricercare la diversa «saggezza» politica di questi due partiti e delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica dell’ultimo di essi. È evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali). Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco: l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi «spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire però che, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche d’inquadramento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno.

Questi criteri devono essere tenuti presenti nello studio della personalità di Giuseppe Ferrari che fu lo «specialista» inascoltato di quistioni agrarie nel Partito d’Azione. Nel Ferrari occorre anche studiare bene l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra e viventi alla giornata, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie, per le quali egli è ancora ricercato e letto da determinate correnti (opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazioni di Luigi Fabbri). Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e anche oggi di ardua soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono ancora oggi, nella maggior parte, ed erano quindi tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era più diffuso, in modo rilevante, il tipo dell’obbligato in confronto a quello dell’avventizio. La loro psicologia perciò è, con le dovute eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario (è da ricordare la polemica tra i senatori Tanari e Bassini nel «Resto del Carlino» e nella «Perseveranza» avvenuta verso la fine del 1917 o ai primi del ’18 a proposito della realizzazione della formula la «terra ai contadini» lanciata in quel torno di tempo: il Tanari era pro, il Bassini contro e il Bassini si fondava sulla sua esperienza di grande industriale agricolo, di proprietario di aziende agricole in cui la divisione del lavoro era già talmente progredita da rendere indivisibile la terra per la sparizione del contadino-artigiano e l’emergere dell’operaio moderno). La quistione si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno dove il carattere artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato. Anche in tempi recenti però l’esistenza di un problema acuto dei bracciantato nella valle padana era dovuta in parte a cause «extraeconomiche»: 1) sovrapopolazione che non trovava uno sbocco nell’emigrazione come nel Sud ed era mantenuta artificialmente con la politica dei lavori pubblici; 2) politica dei proprietari che non volevano consolidare in un’unica classe di braccianti e di mezzadri la popolazione lavoratrice, alternando alla mezzadria la conduzione ad economia servendosi di questo alternare per determinare una migliore selezione di mezzadri privilegiati che fossero i loro alleati (in ogni Congresso di agrari della regione padana si discuteva sempre se conveniva meglio la mezzadria o la conduzione diretta ed era chiaro che la scelta veniva fatta per motivi di ordine politico-sociale). Durante il Risorgimento il problema del bracciantato padano appariva sotto la forma di un fenomeno pauroso di pauperismo. Così è visto dall’economista Tullio Martello nella sua Storia dell’Internazionale, scritta nel 1871-72, lavoro che occorre tener presente perché riflette le posizioni politiche e le preoccupazioni sociali del periodo precedente.

La posizione del Ferrari è indebolita poi dal suo «federalismo» che, specialmente in lui, vivente in Francia, appariva ancora più come un riflesso degli interessi nazionali e statali francesi. È da ricordare il Proudhon e i suoi libelli contro l’unità italiana combattuta dal confessato punto di vista degli interessi statali francesi e della democrazia. In realtà le principali correnti della politica francese erano aspramente contrarie all’unità italiana. Ancora oggi i monarchici (Bainville e C.) «rimproverano» retrospettivamente ai due Napoleoni di aver creato il mito nazionalitario e di aver contribuito a farlo realizzare in Germania e in Italia, abbassando così la statura relativa della Francia che «dovrebbe» essere circondata da un pulviscolo di staterelli tipo Svizzera per essere «sicura».

Ora è proprio sulla parola d’ordine di «indipendenza e unità», senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule generiche, che i moderati dopo il 48 formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d’Azione, Mazzini e Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro intento di deviare l’attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano (pubblicata nell’«Archivio Storico Siciliano» da Eugenio de Carlo – Carteggio di F. D. Guerrazzi col notaio Francesco Paolo Sardofontana di Riella, riassunto nel «Marzocco» del 29 novembre 1929): «Sia che vuolsi – o dispotismo, o repubblica o che altro – non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via». Del resto tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella continua e permanente predicazione dell’unità.

A proposito del giacobinismo e del Partito d’Azione un elemento da porre in primo piano è questo: che i giacobini conquistarono con la lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente; essi in realtà si «imposero» alla borghesia francese, conducendola in una posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti avrebbero voluto «spontaneamente» occupare e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la grande rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti, può essere così «schematizzata»: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto avanzato ma politicamente moderato. Lo sviluppo degli avvenimenti segue un processo dei più interessanti. I rappresentanti del terzo stato inizialmente pongono solo le quistioni che interessano i componenti fisici attuali del gruppo sociale, i loro interessi «corporativi» immediati (corporativi, nel senso tradizionale, di immediati ed egoistici in senso gretto di una determinata categoria): i precursori della rivoluzione sono infatti dei riformatori moderati, che fanno la voce grossa ina in realtà domandano ben poco. A mano a mano si viene selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente di riforme «corporative» ma tende a concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari e questa selezione avviene per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. Le vecchie forze non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con la volontà di guadagnare tempo e preparare una controffensiva. Il terzo stato sarebbe caduto in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni sosta «intermedia» del processo rivoluzionario e mandano alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi diventati reazionari. I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo, non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale esistente. Occorre insistere, contro una corrente tendenziosa e in fondo antistorica, che i giacobini furono dei realisti alla Machiavelli e non degli astrattisti. Essi erano persuasi dell’assoluta verità delle formule sull’uguaglianza, la fraternità, la libertà e, ciò che importa di più, di tale verità erano persuase le grandi masse popolari che i giacobini suscitavano e portavano alla lotta. Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d’azione, riflettevano perfettamente le esigenze dell’epoca, anche se «oggi», in una diversa situazione e dopo più di un secolo di elaborazione culturale, possono parere «astrattisti» e «frenetici». Naturalmente le riflettevano secondo la tradizione culturale francese e di ciò è una prova l’analisi che del linguaggio giacobino si ha nella Sacra Famiglia e l’ammissione di Hegel che pone come paralleli e reciprocamente traducibili il linguaggio giuridico-politico dei giacobini e i concetti della filosofia classica tedesca, alla quale invece oggi si riconosce il massimo di concretezza e che ha originato lo storicismo moderno. La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o almeno ridurle all’impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte le forze nazionali e mettere in moto queste forze e condurle alla lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto politico-militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte. La resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale inasprita nelle popolazioni brettoni, e in generale allogene, dalla formula della «repubblica una e indivisibile» e dalla politica di accentramento burocratico-militare, alle quali i giacobini non potevano rinunziare senza suicidarsi. I girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare Parigi giacobina, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai rivoluzionari. Eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale (e linguistica) era grandissima, la quistione agraria ebbe il sopravvento su le aspirazioni all’autonomia locale: la Francia rurale accettò l’egemonia di Parigi, cioè comprese che per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli elementi più avanzati del terzo stato, e non con i moderati girondini. Se è vero che i giacobini «forzarono» la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese.

Che, nonostante tutto, i giacobini siano sempre rimasti sul terreno della borghesia, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro fine come partito di formazione troppo determinata e irrigidita e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione, mantenendo la legge Chapelier, e come conseguenza dovettero promulgare la legge del «maximum». Spezzarono così il blocco urbano di Parigi: le loro forze d’assalto, che si raggruppavano nel comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento. La rivoluzione aveva trovato i limiti più larghi di classe; la politica delle alleanze e della rivoluzione permanente aveva finito col porre quistioni nuove che allora non potevano essere risolte, aveva scatenato forze elementari che solo una dittatura militare sarebbe riuscita a contenere.

Nel Partito d’Azione non si trova niente che rassomigli a questo indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e l’ordine internazionale vigente e contro una potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto. Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarre elementi per una maggiore energia all’interno: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo praticamente più efficace, non divenne elemento politico attivo. Si trasformò «curiosamente», in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin dopo il 1898 (cfr. gli articoli di «Rerum Scriptor» nella «Critica Sociale», dopo la ripresa delle pubblicazioni, e il libro di Romualdo Bonfadini, Cinquanta anni di patriottismo).

È da ricordare a questo proposito la quistione dei «costituti» di Federico Confalonieri: il Bonfadini, nel libro su citato, afferma in una nota di aver visto la raccolta dei «costituti» nell’Archivio di Stato di Milano e accenna a circa 80 fascicoli. Altri hanno sempre negato che la raccolta dei costituti esistesse in Italia e così ne spiegavano la non pubblicazione; in un articolo del senatore Salata, incaricato di far ricerche negli archivi di Vienna sui documenti riguardanti l’Italia, articolo pubblicato nel 1925 (?), si diceva che i costituti erano stati rintracciati e sarebbero stati pubblicati. Ricordare il fatto che in un certo periodo la «Civiltà Cattolica» sfidò i liberali a pubblicarli, affermando che essi, conosciuti, avrebbero, nientemeno, fatto saltare in aria l’unità dello Stato. Nella quistione Confalonieri il fatto più notevole consiste in ciò, che a differenza di altri patriotti graziati dall’Austria, il Confalonieri, che pure era un rimarchevole uomo politico, si ritirò dalla vita attiva e mantenne dopo la sua liberazione, un contegno molto riservato. Tutta la quistione Confalonieri è da riesaminare criticamente, insieme con l’atteggiamento tenuto da lui e dai suoi compagni, con un esame approfondito delle memorie scritte dai singoli, quando le scrissero: per le polemiche che suscitò sono interessanti le memorie del francese Alessandro Andryane che tributa molto rispetto e ammirazione per il Confalonieri, mentre attacca G. Pallavicino per la sua debolezza.

A proposito delle difese fatte anche recentemente dell’atteggiamento tenuto dall’aristocrazia lombarda verso l’Austria, specialmente dopo il tentativo insurrezionale di Milano del febbraio 1853 e durante il viceregno di Massimiliano, è da ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è sempre tendenziosa e acrimoniosa contro i democratici, giunge fino a legittimare i fedeli servizi resi all’Austria dal Salvotti: altro che spirito giacobino!. La nota comica in argomento è data da Alfredo Panzini, che, nella Vita di Cavour fa tutta una variazione altrettanto leziosa quanto stomachevole e gesuitica su una «pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe!

Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso ecc. sul Risorgimento italiano come «conquista regia» .

Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e quella sul «maximum», si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal papa). La borghesia non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece poté abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era certamente sempre possibile.

Differenze tra la Francia, la Germania e l’Italia nel processo di presa del potere da parte della borghesia (e Inghilterra). In Francia si ha il processo più ricco di sviluppi e di elementi politici attivi e positivi. In Germania il processo si svolge per alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del 48 fallisce per la scarsa concentrazione borghese (la parola d’ordine di tipo giacobino fu data dall’estrema sinistra democratica: «rivoluzione in permanenza») e perché la quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la quistione nazionale; le guerre del 64, del 66 e del 70 risolvono insieme la quistione nazionale e quella di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo dello Stato politico con ampi privilegi corporativi nell’esercito, nell’amministrazione e sulla terra: ma almeno, se queste vecchie classi conservano in Germania tanta importanza e godono di tanti privilegi, esse esercitano una funzione nazionale, diventano gli «intellettuali» della borghesia, con un determinato temperamento dato dall’origine di casta e dalla tradizione. In Inghilterra, dove la rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l’estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè le «teste rotonde» di Cromwell; la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch’essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (del resto l’aristocrazia inglese è a quadri aperti e si rinnova continuamente con elementi provenienti dagli intellettuali e dalla borghesia). In proposito sono da vedere alcune osservazioni contenute nella prefazione alla traduzione inglese di Utopia e Scienza che occorre ricordare per la ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni storico-sociali.

La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in Germania degli Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo capitalistico, adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classi creato dallo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell’egemonia borghese e il rovesciamento delle posizioni delle classi progressive, ha indotto la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio regime, ma a lasciarne sussistere una parte della facciata dietro cui velare il proprio dominio reale.

Questa differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali (i rapporti internazionali sono di solito sottovalutati in questo ordine di ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è certamente legato all’egemonia esercitata così a lungo dalla Francia in Europa, oltre che all’esistenza di un centro urbano come Parigi e all’accentramento conseguito in Francia per opera della monarchia assoluta. Le guerre di Napoleone, invece, con l’enorme distruzione di uomini, tra i più audaci e intraprendenti, hanno indebolito non solo l’energia politica militante francese, ma anche quella delle altre nazioni, sebbene intellettualmente siano state così feconde per la rinnovazione dell’Europa.

I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione professionale dei diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni «cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa popolare, è un’altra quistione.

A proposito della parola d’ordine «giacobina» formulata nel 48-49 è da studiarne la complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein, si manifestò inerte e inefficace nel 1905, e in seguito: era diventata una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione letteraria, invece, senza impiegarla «di proposito», la applicò di fatto in una forma aderente alla storia attuale, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della determinata società che occorreva trasformare, come alleanza di due gruppi sociali, con l’egemonia del gruppo urbano.

Nell’un caso si ebbe il temperamento giacobino senza un contenuto politico adeguato; nel secondo, temperamento e contenuto «giacobino» secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta letteraria e intellettualistica.

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Q 19, 5 - Interpretazioni del Risorgimento

§ Interpretazioni del Risorgimento. Esiste una notevole quantità di interpretazioni, le più disparate, del Risorgimento. La stessa quantità di esse è un segno caratteristico della letteratura storico-politica italiana e della situazione degli studi sul Risorgimento. Perché un evento o un processo di avvenimenti storici possa dar luogo a un tal genere di letteratura occorre pensare: che esso sia poco chiaro e giustificato nel suo sviluppo per la insufficienza delle forze «intime» che pare lo abbiano prodotto, per la scarsità degli elementi oggettivi «nazionali» ai quali fare riferimento, per la inconsistenza e gelatinosità dell’organismo studiato (e infatti spesso si è sentito accennare al «miracolo» del Risorgimento). Né può giustificare una simile letteratura la scarsezza dei documenti (difficoltà di ricerche negli Archivi, ecc.), poiché, in tal caso, l’intero corso dello svolgimento potrebbe essere documento di se stesso: anzi è appunto evidente che la debolezza organica di un complesso «vertebrato» in questo corso di svolgimento è la origine di questo sfrenarsi del «soggettivismo» arbitrario, spesso bizzarro e strampalato. In generale si può dire che il significato dell’insieme di queste interpretazioni è di carattere politico immediato e ideologico e non storico. Anche la loro portata nazionale è scarsa, sia per la troppa tendenziosità, sia per l’assenza di ogni apporto costruttivo, sia per il carattere troppo astratto, spesso bizzarro e romanzato. Si può notare che tale letteratura fiorisce nei momenti più caratteristici di crisi politico-sociale, quando il distacco tra governanti e governati si fa più grave e pare annunziare eventi catastrofici per la vita nazionale; il panico si diffonde tra certi gruppi intellettuali più sensibili e si moltiplicano i conati per determinare una riorganizzazione delle forze politiche esistenti, per suscitare nuove correnti ideologiche nei logori e poco consistenti organismi di partito o per esalare i sospiri e gemiti di disperazione e di nero pessimismo. Una classificazione razionale di questa letteratura sarebbe necessaria e piena di significato. Per ora si può fissare provvisoriamente qualche punto di riferimento: 1) un gruppo di interpretazioni in senso stretto, come può essere quella contenuta nella Lotta politica in Italia e negli altri scritti di polemica politico-culturale di Alfredo Oriani, che ne ha determinato tutta una serie attraverso gli scritti di Mario Missiroli; come quelle di Piero Gobetti e di Guido Dorso; 2) un gruppo di carattere più sostanziale e serio, con pretese di serietà e rigore storiografico, come quelle del Croce, del Solmi, del Salvatorelli; 3) le interpretazioni di Curzio Malaparte (sull’Italia Barbara, sulla lotta contro la Riforma protestante ecc.), di Carlo Curcio (L’eredità del Risorgimento, Firenze, La Nuova Italia, 1931, pp. 114, L. 12) ecc.

Occorre ricordare gli scritti di F. Montefredini (cfr. il saggio del Croce in proposito nella Letteratura della nuova Italia) fra le «bizzarrie» e quelli di Aldo Ferrari (in volumi e volumetti e in articoli della «Nuova Rivista Storica») come bizzarrie e romanzo nel tempo stesso; così il volumetto di Vincenzo Cardarelli, Parole all’Italia (ed. Vallecchi, 1931).

Un altro gruppo importante è rappresentato da libri come quello di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, pubblicato la prima volta nel 1883 e ristampato nel 1925 (Milano, Soc. An. Istituto Editoriale Scientifico, in 8°, pp. 301, L. 25); come il libro di Pasquale Turiello, Governo e governati; di Leone Carpi, L’Italia vivente; di Luigi Zini, Dei criteri e dei modi di governo; di Giorgio Arcoleo, Governo di Gabinetto; di Marco Minghetti, I partiti politici e la loro influenza nella giustizia e nell’amministrazione; libri di stranieri, come quello del Laveleye, Lettere d’Italia; del von Loher, La nuova Italia e anche del Brachet, L’Italie qu’on voit et l’Italie qu’on ne voit pas; oltre ad articoli della «Nuova Antologia» e della «Rassegna Settimanale» (del Sonnino), di Pasquale Villari, di R. Bonghi, di G. Palma ecc., fino all’articolo famoso del Sonnino nella «Nuova Antologia», Torniamo allo Statuto!.

Questa letteratura è una conseguenza della caduta della Destra storica, dell’avvento al potere della così detta Sinistra e delle innovazioni «di fatto» introdotte nel regime costituzionale per avviarlo a una forma di regime parlamentare. In gran parte sono lamentele, recriminazioni, giudizi pessimistici e catastrofici sulla situazione nazionale e a tale fenomeno accenna il Croce nei primi capitoli della sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915; a questa manifestazione si contrappone la letteratura degli epigoni del Partito d’Azione (tipico il libro postumo dell’abate Luigi Anelli, stampato recentemente, con note e commenti, da Arcangelo Ghisleri) sia in volumi che in opuscoli e in articoli di rivista, compresi i più recenti pubblicisti del partito repubblicano.

Si può notare questo nesso tra le varie epoche di fioritura di tale letteratura pseudo-storica e pseudo-critica: 1) letteratura dovuta ad elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra e della Consorteria (cioè per la diminuita importanza nella vita statale di certi gruppi di grandi proprietari terrieri e dell’aristocrazia, ché di una sostituzione di classe non si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi, senza riferimenti storici a una tradizione qualsiasi, perché nel passato non esiste nessun punto di riferimento reazionario che possa essere proposto per una restaurazione con un certo pudore e qualche dignità: nel passato ci sono i vecchi regimi regionali e le influenze del Papa e dell’Austria. L’«accusa» fatta al regime parlamentare di non essere «nazionale» ma copiato da esemplari stranieri rimane una vuota recriminazione senza costrutto, che nasconde solo il panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella vita dello Stato; il riferimento a una «tradizione» italiana di governo è necessariamente vago e astratto perché una tale tradizione non ha prospettive storicamente apprezzabili: in tutto il passato non è mai esistita una unità territoriale-statale italiana, la prospettiva dell’egemonia papale (propria del Medio Evo fino al periodo del dominio straniero) è già stata travolta col neoguelfismo ecc. (Questa prospettiva, infine, sarà trovata nell’epoca romana, con oscillazioni, secondo i partiti, tra la Roma repubblicana e la Roma cesarea, ma il fatto avrà un nuovo significato e sarà caratteristico di nuovi indirizzi impressi alle ideologie popolari).

Questa letteratura reazionaria precede quella del gruppo Oriani-Missiroli, che ha un significato più popolare-nazionale e quest’ultima precede quella del gruppo Gobetti-Dorso, che ha ancora un altro significato più attuale. In ogni modo, anche queste due nuove tendenze mantengono un carattere astratto e letterario. Uno dei punti più interessanti trattati da esse è il problema della mancanza di una Riforma religiosa in Italia come quella protestante, problema che è posto in modo meccanico ed esteriore e ripete uno dei motivi che guidano il Masaryk nei suoi studi di storia russa.

L’insieme di questa letteratura ha importanza «documentaria» per i tempi in cui è apparsa. I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della Sinistra al potere, ma le pubblicazioni degli epigoni del Partito d’Azione non presentano come migliore il periodo di governo della Destra. Risulta che non c’è stato nessun cambiamento essenziale nel passaggio dalla Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il paese non è dovuto al regime parlamentare (che rende solo pubblico e notorio ciò che prima rimaneva nascosto o dava luogo a pubblicazioni clandestine libellistiche) ma alla debolezza e inconsistenza organica della classe dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese. Politicamente la situazione è assurda: a destra stanno i clericali, il partito del Sillabo che nega in tronco tutta la civiltà moderna e boicotta lo Stato legale, non solo impedendo che si costituisca un vasto partito conservatore ma mantenendo il paese sotto l’impressione della precarietà e insicurezza del nuovo Stato unitario; nel centro stanno tutte le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odii del tempo delle lotte e che si dilaniano implacabilmente; a sinistra il paese misero, arretrato, analfabeta esprime in forma sporadica, discontinua, isterica, una serie di tendenze sovversive-anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo. Non esistono «partiti economici» ma gruppi di ideologi déclassés di tutte le classi, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare.

I libri del gruppo Mosca-Turiello cominciarono a essere rimessi in voga negli anni precedenti la guerra (si può vedere nella «Voce» il richiamo continuo al Turiello) e il libro giovanile del Mosca fu ristampato nel 1925 con qualche nota dell’autore per ricordare che si tratta di idee del 1883 e che l’autore nel ’25 non è più d’accordo con lo scrittore ventiquattrenne del 1883. La ristampa del libro del Mosca è uno dei tanti episodi dell’incoscienza e del dilettantismo politico dei liberali nel primo e secondo dopoguerra. Del resto il libro è rozzo, incondito, scritto affrettatamente da un giovane che vuole «distinguersi» nel suo tempo con un atteggiamento estremista e con parole grosse e spesso triviali in senso reazionario. I concetti politici del Mosca sono vaghi e ondeggianti, la sua preparazione filosofica è nulla (e tale è rimasta in tutta la carriera letteraria del Mosca), i suoi principii di tecnica politica sono anch’essi vaghi e astratti e hanno carattere piuttosto giuridico. Il concetto di «classe politica», la cui affermazione diventerà il centro di tutti gli scritti di scienza politica del Mosca, è di una labilità estrema e non è ragionato né giustificato teoricamente. Tuttavia il libro del Mosca è utile come documento. L’autore vuole essere spregiudicato per programma, non avere peli sulla lingua e così finisce per mettere in vista molti aspetti della vita italiana del tempo che altrimenti non avrebbero trovato documentazione. Sulla burocrazia civile e militare, sulla polizia ecc., il Mosca offre dei quadri talvolta di maniera, ma con una sostanza di verità (per esempio, sui sottufficiali dell’esercito, sui delegati di pubblica sicurezza ecc.). Le sue osservazioni sono specialmente valevoli per la Sicilia, per l’esperienza diretta del Mosca di quell’ambiente. Nel 1925 il Mosca aveva mutato punto di vista e prospettive, il suo materiale era sorpassato, tuttavia egli ristampò il libro per vanità letteraria, pensando di immunizzarlo con qualche noterella palinodica.

Sulla situazione politica italiana proprio nel 1883 e sull’atteggiamento dei clericali si può trovare qualche spunto interessante nel libro del Maresciallo Lyautey, Lettres de Jeunesse (Parigi, Grasset, 1931). Secondo il Lyautey molti italiani, tra i più devoti al Vaticano, non credevano nell’avvenire del regno; ne prevedevano la decomposizione, da cui sarebbe nata un’Alta Italia con Firenze capitale, un’Italia Meridionale con capitale Napoli, e Roma in mezzo, con sbocco al mare. Sull’esercito italiano d’allora, che in Francia era poco apprezzato, il Lyautey riferisce il giudizio del conte di Chambord: «Ne vous y trompez pas. Tout ce que j’en sais, me la (l’armée italiana) fait juger très sérieuse, très digne d’attention. Sous leurs façons un peu théâtrales et leurs plumets, les officiers y sont fort instruits, fort appliqués. C’est d’ailleurs l’opinion de mon neveu de Parme qui n’est pas payé pour les aimer».

Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è prevalentemente legato alla «pretesa» di trovare una unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi (e spesso anche prima di Roma, come nel caso dei «Pelasgi» del Gioberti e in altri più recenti). Come è nata questa pretesa, come si è mantenuta e perché persiste tuttora? È un segno di forza o di debolezza? È il riflesso di formazioni sociali nuove, sicure di sé e che cercano e si creano titoli di nobiltà nel passato, oppure è invece il riflesso di una torbida «volontà di credere», un elemento di fanatismo (e di fanatizzazione) ideologico, che deve appunto «risanare» le debolezze di struttura e impedire un temuto tracollo? Quest’ultima pare la giusta interpretazione, unita al fatto della eccessiva importanza (relativamente alle formazioni economiche) degli intellettuali, cioè dei piccoli borghesi in confronto delle classi economiche arretrate e politicamente incapaci. Realmente l’unità nazionale è sentita come aleatoria, perché forze «selvagge», non conosciute con precisione, elementarmente distruttive, si agitano continuamente alla sua base. La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà terriera mantiene la sua compattezza solo sovraeccitando i suoi elementi militanti con questo mito di fatalità storica, più forte di ogni manchevolezza e di ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno che all’adesione organica delle masse popolari-nazionali allo Stato si sostituisce una selezione di «volontari» della «nazione» concepita astrattamente. Nessuno ha pensato che appunto il problema posto dal Machiavelli col proclamare la necessità di sostituire milizie nazionali ai mercenari avventizi e infidi, non è risolto finché anche il «volontarismo» non sarà superato dal fatto «popolare-nazionale» di massa, poiché il volontarismo è soluzione intermedia, equivoca, altrettanto pericolosa che il mercenarismo.

Il modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle interpretazioni ideologiche della formazione italiana si potrebbe chiamare «storia feticistica»: per essa infatti diventano protagonisti della storia «personaggi» astratti e mitologici. Nella Lotta politica dell’Oriani si ha il più popolare di questi schemi mitologici, quello che ha partorito una più lunga serie di figli degeneri. Vi troviamo la Federazione, l’Unità, la Rivoluzione, l’Italia ecc. Nell’Oriani è chiara una delle cause di questo modo di concepire la storia per figure mitologiche. Il canone critico che tutto lo sviluppo storico è documento di se stesso, che il presente illumina e giustifica il passato, viene meccanicizzato ed esteriorizzato e ridotto a una legge deterministica di rettilineità e di «unilinearità» (anche perché l’orizzonte storico viene ristretto ai confini geografici nazionali e l’evento avulso dal complesso della storia universale, dal sistema dei rapporti internazionali cui invece è necessariamente saldato). Il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato.

Per la trattazione di questo argomento, sono da vedere le osservazioni critiche di Antonio Labriola negli Scritti vari (pp. 487-90, pp. 317-442 passim, e nel primo dei suoi Saggi a pp. 50-52). Su questo punto è anche da vedere il Croce nella Storia della Storiografia, II, pp. 227-28 della Ia edizione e in tutta questa opera lo studio dell’origine «sentimentale e pratica» e la «critica impossibilità» di una «storia generale d’Italia». Altre osservazioni connesse a queste sono quelle di Antonio Labriola a proposito di una storia generale del Cristianesimo, che al Labriola sembrava inconsistente come tutte le costruzioni storiche che assumono a soggetto «enti» inesistenti (cfr. III Saggio, p. 113).

Una reazione concreta nel senso indicato dal Labriola si può studiare negli scritti storici (e anche politici) del Salvemini, il quale non vuol sapere di «guelfi» e «ghibellini», uno partito della nobiltà e dell’Impero e l’altro del popolo e del Papato, perché egli dice di conoscerli solo come «partiti locali», combattenti per ragioni affatto locali, che non coincidevano con quelle del Papato e dell’Impero. Nella prefazione al suo volume sulla Rivoluzione francese si può vedere teorizzato questo atteggiamento del Salvemini con tutte le esagerazioni antistoriche che porta con sé (il volume sulla Rivoluzione francese è criticabile anche da altri punti di vista: che la Rivoluzione possa dirsi compiuta con la battaglia di Valmy è affermazione non sostenibile): «L’innumerevole varietà degli eventi rivoluzionari» si suole attribuire in blocco a un ente «Rivoluzione», invece di «assegnare ciascun fatto all’individuo o ai gruppi di individui reali, che ne furono autori». Ma se la storia si riducesse solo a questa ricerca, sarebbe ben misera cosa e diventerebbe, tra l’altro, incomprensibile. Sarà da vedere come il Salvemini concretamente risolve le incongruenze che risultano dalla sua impostazione troppo unilaterale del problema metodologico, tenendo conto di questa cautela critica: se non si conoscesse da altre opere la storia qui raccontata, e avessimo solo questo libro, ci sarebbe comprensibile la serie degli eventi descritta? Cioè si tratta di una storia «integrale» o di una storia «polemica» e polemicamente complementare che si propone solo (od ottiene senza proporselo, necessariamente) di aggiungere qualche pennellata a un quadro già abbozzato da altri? Questa cautela dovrebbe sempre essere presente in ogni critica, poiché infatti spesso si ha da fare con opere che da «sole» non sarebbero soddisfacenti, ma che possono essere molto utili nel quadro generale di una determinata cultura, come «integrative e complementari» di altri lavori o ricerche.

Scrive Adolfo Omodeo nella «Critica» del 20 luglio 1932, p. 280: «Ai patrioti offriva la tesi che allora aveva rimessa in circolazione il Salvemini: della storia del Risorgimento come piccola storia, non sufficientemente irrorata di sangue; dell’unità, dono più di una propizia fortuna che meritato acquisto degli italiani; del Risorgimento, opera di minoranze contro l’apatia della maggioranza. Questa tesi generata del materialismo storico di apprezzare in sé la grandezza morale, senza la statistica empirica delle bigonce di sangue versato e il computo degli interessi (aveva una speciosità facile ed era destinata a correre fra tutte le riviste e i giornali e a far denigrare dagli ignoranti l’opera dura del Mazzini e del Cavour), questa tesi serviva di base al Marconi per un’argomentazione moralistica di stile vociano». (L’Omodeo scrive di Piero Marconi, morto nella guerra, e della sua pubblicazione Io udii il comandamento, Firenze, senza data).

Ma l’Omodeo stesso, nel suo libro L’Età del Risorgimento non è riuscito a dare una interpretazione e una ricostruzione che non sia estrinseca e di parata. Che il Risorgimento sia stato l’apporto italiano al grande movimento europeo del secolo XIX non significa senz’altro che l’egemonia del movimento fosse in Italia, e non significa neanche che anche dalla «maggioranza della minoranza» attiva il movimento stesso non sia stato seguito con riluttanza e obtorto collo. La grandezza individuale del Cavour e del Mazzini spicca ancor più grande nella prospettiva storica come la palma nel deserto. Le osservazioni critiche dell’Omodeo alla concezione del Risorgimento come «piccola storia» sono malevole e triviali, né egli riesce a comprendere come tale concezione sia stata l’unico tentativo un po’ serio di «nazionalizzare» le masse popolari, cioè di creare un movimento democratico con radici italiane e con esigenze italiane (è strano che il Salvatorelli, accennando in una nota della «Cultura» alla Storia d’Europa del Croce e all’Età del Risorgimento dell’Omodeo, trovi questa l’espressione di un indirizzo democratico e la storia crociana di un indirizzo più strettamente liberale conservatore).

Del resto si può osservare: se la storia del passato non si può non scrivere con gli interessi e per gli interessi attuali, la formula critica che bisogna fare la storia di ciò che il Risorgimento è stato concretamente (se non significa un richiamo al rispetto e alla completezza della documentazione) non è insufficiente e troppo ristretta? Spiegare come il Risorgimento si è fatto concretamente, quali sono le fasi del processo storico necessario che hanno culminato in quel determinato evento può essere solo un nuovo modo di ripresentare la così detta «obbiettività» esterna e meccanica. Si tratta spesso di una rivendicazione «politica» di chi è soddisfatto e nel processo al passato vede giustamente un processo al presente, una critica al presente e un programma per l’avvenire. E gruppo Croce-Omodeo e C. sta santificando untuosamente (l’untuosità è specialmente dell’Omodeo) il periodo liberale e lo stesso libro dell’Omodeo Momenti di guerra ha questo significato: mostrare come il periodo giolittiano, tanto «diffamato», covasse nel suo intimo un «insuperabile» tesoro di idealismo e di eroismo.

Del resto queste discussioni, in quanto sono puramente di metodologia empirica, sono inconcludenti. E se scrivere storia significa fare storia del presente, è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive.

Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni ideologiche del Risorgimento consiste in ciò che esse sono state meramente ideologiche, cioè che non si rivolgevano a suscitare forze politiche attuali. Lavori di letterati, di dilettanti, costruzioni acrobatiche di uomini che volevano fare sfoggio di talento se non d’intelligenza; oppure rivolte a piccole cricche intellettuali senza avvenire, oppure scritte per giustificare forze reazionarie in agguato, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini immaginari, e, pertanto, piccoli servizi da lacché intellettuali (il tipo più compiuto di questi lacché è Mario Missiroli) e da mercenari della scienza.

Queste interpretazioni ideologiche della formazione nazionale e statale italiana sono anche da studiare da un altro punto di vista: il loro succedersi «acritico», per spinte individuali di persone più o meno «geniali», è un documento della primitività dei vecchi partiti politici, dell’empirismo immediato di ogni azione costruttiva (compresa quella dello Stato), dell’assenza nella vita italiana di ogni movimento «vertebrato» che abbia in sé possibilità di sviluppo permanente e continuo. La mancanza di prospettiva storica nei programmi di partito, prospettiva costruita «scientificamente» cioè con serietà scrupolosa, per basare su tutto il passato i fini da raggiungere nell’avvenire e da proporre al popolo come una necessità cui collaborare consapevolmente, ha permesso appunto il fiorire di tanti romanzi ideologici, che sono in realtà la premessa (il manifesto) di movimenti politici che sono astrattamente supposti necessari, ma per suscitare i quali non si fa poi niente di pratico. È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle che sono spesso chiamate le «forze occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciar poi illanguidire e morire. Sono manifestazioni come «le compagnie di ventura», vere e proprie compagnie di ventura ideologiche, pronte a servire i gruppi plutocratici o d’altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro la plutocrazia ecc. Organizzatore tipico di tali «compagnie» è stato Pippo Naldi, discepolo anch’egli di Oriani e regista di Mario Missiroli e delle sue improvvisazioni giornalistiche.

Sarebbe utile compilare una bibliografia completa di Mario Missiroli. Alcuni dei suoi libri: La Monarchia socialista (del 1913), Polemica liberale, Opinioni, Il colpo di Stato (del 1925), Una battaglia perduta, Italia d’oggi (del 1932), La repubblica degli accattoni (su Molinella), Amore e Faine, Date a Cesare... (1929). Un libro sul Papa, del 1917 ecc.

I motivi principali posti in circolazione dal Missiroli sono: 1°) che il Risorgimento è stato una conquista regia e non un movimento popolare; 2°) che il Risorgimento non ha risolto il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, motivo che è legato al primo, poiché «un popolo che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà politica. L’ideale dell’indipendenza e della libertà diventò patrimonio e programma di una minoranza eroica, che concepì l’unità contro l’acquiescenza delle moltitudini popolari». La mancanza della Riforma protestante in Italia spiegherebbe in ultima analisi tutto il Risorgimento e la storia moderna nazionale. Il Missiroli applica all’Italia il criterio ermeneutico applicato dal Masaryk alla storia russa (sebbene il Missiroli abbia detto di accettare la critica di Antonio Labriola contro il Masaryk storico). Come il Masaryk, Missiroli (nonostante le sue relazioni con G. Sorel) non comprende che la «riforma» intellettuale e morale (cioè «religiosa») di portata popolare nel mondo moderno c’è stata in due tempi: nel primo tempo con la diffusione dei principi della Rivoluzione francese, nel secondo tempo con la diffusione di una serie di concetti ricavati dalla filosofia della prassi e spesso contaminati con la filosofia dell’illuminismo e poi dell’evoluzionismo scientifista. Che una tale «riforma» sia stata diffusa in forme grossolane e sotto forma di opuscoletti non è istanza valevole contro il suo significato storico: non è da credere che le masse popolari influenzate dal calvinismo assorbissero concetti relativamente più elaborati e raffinati di quelli offerti da questa letteratura di opuscoli: si presenta invece la quistione dei dirigenti di tale riforma, della loro inconsistenza e assenza di carattere forte ed energico.

Né il Missiroli tenta di analizzare il perché la minoranza che ha guidato il moto del Risorgimento non sia «andata al popolo», né «ideologicamente» assumendo in proprio il programma democratico che pure giungeva al popolo attraverso le traduzioni dal francese, né «economicamente» con la riforma agraria. Ciò che «poteva» avvenire, poiché il contadiname era quasi tutto il popolo d’allora e la riforma agraria era un’esigenza fortemente sentita, mentre la Riforma protestante coincise appunto con una guerra di contadini in Germania e con conflitti tra nobili e borghesi in Francia ecc. (non bisogna dimenticare che sulla riforma agraria speculò invece l’Austria per aizzare i contadini contro i patrioti latifondisti e che i liberali conservatori, con le scuole di mutuo insegnamento e con istituzioni di mutuo soccorso o di piccolo credito su pegni popolari, cercarono solo di acquistarsi la simpatia degli artigiani e degli scarsi nuclei operai di città: l’Associazione generale degli operai di Torino ebbe tra i fondatori il Cavour). «L’unità non aveva potuto attuarsi col Papato, di sua natura universale ed organicamente ostile a tutte le libertà moderne; ma non era neppure riuscita a trionfare del Papato, contrapponendo all’idea cattolica un’idea altrettanto universale che rispondesse ugualmente alla coscienza individuale e alla coscienza del mondo rinnovato dalla Riforma e dalla Rivoluzione». Affermazioni astratte e in gran parte prive di senso. Quale idea universale contrappose al cattolicismo la Rivoluzione francese? Perché dunque in Francia il moto fu popolare e in Italia no? La famosa minoranza italiana, «eroica» per definizione (in questi scrittori l’espressione «eroico» ha un significato puramente «estetico» o retorico e si applica a don Tazzoli come ai nobili milanesi che strisciarono dinanzi all’imperatore d’Austria, tanto che fu anche scritto un libro sul Risorgimento come di rivoluzione «senza eroi» con senso altrettanto letterario e cartaceo), che condusse il moto unitario, in realtà si interessava di interessi economici più che di formule ideali e combatté più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell’unità. Il Missiroli scrive che il nuovo fattore apparso nella storia italiana dopo l’unità, il socialismo, è stato la forma più potente assunta dalla reazione antiunitaria e antiliberale (ciò che è una sciocchezza, e non coincide con altri giudizi dello stesso Missiroli, secondo i quali il socialismo avrebbe immesso nello Stato le forze popolari prima assenti e indifferenti). Come il Missiroli stesso scrive: «Il socialismo non solo non ringagliardì la passione politica (!?), ma aiutò potentemente ad estinguerla; fu il partito dei poveri e delle plebi affamate: le quistioni economiche dovevano prendere rapidamente il sopravvento, i principi politici cedere il campo (!?) agli interessi materiali»; veniva creata una «remora, lanciando le masse alle conquiste economiche ed evitando tutte le quistioni istituzionali». Il socialismo, cioè, fece l’errore (alla rovescia) della famosa minoranza: questa parlava solo di idee astratte e di istituzioni politiche, quello trascurò la politica per la mera economia. È vero che altrove il Missiroli, proprio per ciò, loda i capi riformisti ecc.; questi motivi sono di origine orianesca e repubblicana, assunti superficialmente e senza senso di responsabilità.

Il Missiroli è, in realtà, solo quello che si chiama uno scrittore brillante; si ha l’impressione fondata che egli si infischi delle sue idee, dell’Italia e di tutto: lo interessa solo il gioco momentaneo di alcuni concetti astratti e lo interessa di cadere sempre in piedi con una nuova coccarda in petto. (Missiroli il misirizzi).

Il moto politico che condusse all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico? Si può sostenere che questo sbocco è anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro); esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. Che il moto politico dovesse reagire contro le tradizioni e dar luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non si tratta di una reazione organico-popolare. D’altronde, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in processo di sviluppo (tali miti sono sempre stati un fermento di tutta la storia italiana, anche la più recente, da Q. Sella a Enrico Corradini, a D’Annunzio). Poiché un evento si è prodotto nel passato non significa che debba riprodursi nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione militare nel presente e nell’avvenire non esistono e non pare siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di ordine finanziario-capitalistico. Nel presente italiano l’elemento «uomo» o è l’«uomo-capitale» o è l’«uomo-lavoro». L’espansione italiana può essere solo dell’uomo-lavoro e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi cartacei del passato. Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da assicurare le condizioni migliori di sviluppo all’uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus o in quanto cattolico, ma in quanto produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. Il popolo italiano è quel popolo che «nazionalmente» è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano: si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione. Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, propria di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati danteschi. La «missione» del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria, come voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva dei capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto perciò deve inserirsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare col suo lavoro, ecc.

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