Il «Saggio popolare» e la sociologia
Quaderno 7 (VII) § (6)
La riduzione del materialismo storico a «sociologia» marxista è un incentivo alle facili improvvisazioni giornalistiche dei «genialoidi». L’«esperienza» del materialismo storico è la storia stessa, lo studio dei fatti particolari, la «filologia». Questo dovrebbero forse voler dire quegli scrittori, che, come accenna molto affrettatamente il Saggio popolare, negano che si possa fare una sociologia marxista e affermano che il materialismo storico vive nei saggi storici particolari.
La «filologia» è l’espressione metodologica dell’importanza dei fatti particolari intesi come «individualità» definite e precisate. A questo metodo si contrappone quello dei «grandi numeri» o della «statistica», preso in prestito dalle scienze naturali o almeno da alcune di esse. Ma non si è osservato abbastanza che la legge dei «grandi numeri» può essere applicata alla storia e alla politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono passive – per rispetto alle quistioni che interessano lo storico o il politico – o si suppone che rimangano passive. Questa estensione della legge dei grandi numeri dalle scienze naturali alle scienze storiche e politiche ha diverse conseguenze per la storia e la politica: nella scienza storica può avere per risultato spropositi scientifici, che potranno essere corretti agevolmente dalla scoperta di nuovi documenti che precisino meglio ciò che prima era solo l’«ipotesi»; ma nella scienza e nell’arte politica può avere per risultato delle catastrofi, i cui danni «secchi» non potranno mai essere più risarciti. Nella scienza e nell’arte politica l’elevazione della legge dei grandi numeri a legge essenziale non è solo errore scientifico, ma errore politico in atto: è incitamento alla pigrizia mentale e alla superficialità programmatica, è affermazione aprioristica di «inconoscibilità» del reale, molto più grave che non sia nelle scienze naturali, in cui l’affermazione di «non conoscere» è un criterio di prudenza metodica e non affermazione di carattere filosofico. L’azione politica tende appunto a far uscire le grandi moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la «legge» dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una «legge»? Anche in questo campo si può vedere lo sconvolgimento che nell’arte politica porta la sostituzione nella funzione direttiva dell’ organismo collettivo all’individuo singolo, al capo individuale: i sentimenti standardizzati nelle grandi masse che il «singolo» conosce come espressione della legge dei grandi numeri, cioè razionalmente, intellettualmente, e che egli – se è un grande capo – traduce in idee-forza, in parole-forza, dall’organismo collettivo sono conosciuti per «compartecipazione», per «con-passionalità» e se l’organismo collettivo è innestato vitalmente nelle masse, conosce per esperienza dei particolari immediati, con un sistema di «filologia» vivente, per così dire.
Mi pare che il libro del De Man, se ha un suo valore, lo ha appunto in questo senso: che incita a «informarsi» particolarmente dei «sentimenti» dei gruppi e degli individui e a non accontentarsi delle leggi dei grandi numeri. Il De Man non ha fatto nessuna scoperta nuova, né ha trovato un principio originale che possa superare che possa superare il materialismo storico o dimostrarlo scientificamente errato e infecondo: ha elevato a «principio» scientifico ciò che è solo un criterio già noto ma insufficientemente definito e sviluppato nella sua teoria e nella sua portata scientifica. Il De Man non ha neanche compreso l’importanza del suo criterio, poiché ha creato una nuova legge dei «grandi numeri» inconsapevolmente, un nuovo metodo statistico e classificatorio. una nuova sociologia astratta.