Risorgimento § (25)

Cercare cosa significa e come è giustificata nel Quinet la formula dell’equivalenza di rivoluzione-restaurazione nella storia italiana. Secondo Daniele Mattalia (Gioberti in Carducci nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931) la formula del Quinet sarebbe stata adottata dal Carducci attraverso il concetto giobertiano della classicità nazionale (Rinnovamento, III, 88; Primato, III, 1, 5, 6. 7…; il Rinnovamento nell’edizione Laterza, il Primato nell’edizione Utet). Questo concetto del Quinet può essere avvicinato a quello di «rivoluzione passiva» del Cuoco? Sia la «rivoluzione-restaurazione» del Quinet che la «rivoluzione passiva» del Cuoco esprimerebbe il fatto storico dell’assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia italiana, e il fatto che il «progresso» si verificherebbe come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con «restaurazioni» che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari, quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni-restaurazioni» o anche «rivoluzioni passive». Trasportando questo spunto nella rubrica «Passato e presente» si potrebbe dire che si tratta di «rivoluzioni dell’uomo del Guicciardini» e che il Cavour «diplomatizzò» appunto la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini.

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Storia degli intellettuali § (24)

Gli Elementi di scienza politica del Mosca (nuova edizione aumentata del 1923) sono da esaminare per questa rubrica. La cosiddetta «classe politica» del Mosca non è altro che la categoria intellettuale del gruppo sociale dominante: il concetto di «classe politica» del Mosca è da avvicinare al concetto di élite del Pareto, che è un altro tentativo di interpretare il fenomeno storico degli intellettuali e la loro funzione nella vita statale e sociale. Il libro del Mosca è un enorme zibaldone di carattere sociologico e positivistico, con in più la tendenziosità della politica immediata che lo rende meno indigesto e letterariamente più vivace.

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Federico Confalonieri. § (23)

Dal libretto: A.F. Andryabe, Memorie di un prigioniero di Stato allo Spielberg, Capitoli scelti e annotati da Rosolino Guastalla, Firenze, Barbèra, 1916, tolgo alcune indicazioni bibliografiche su Federico Confalonieri: Rosolino Guastalla, Letteratura spielberghese in Le mie prigioni commentate, Livorno, Giusti, 1912; Giorgio Pallavicino, Spilbergo e Gradisca (1856), ristampato nelle Memorie (Loescher, 1882); Federico Confalonieri, Memorie e Lettere (Milano, Hoepli, 1890); Alessandro Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, ROma, 1901; Domenico Chiattone, commento alle Mei Prigioni del Pellico. I Mémoires dell’Andryane sono stati tradotti in italiano da F. Regonati (quattro volumi, 1861, Milano) corredati da documenti.

Posizione del Luzio contro Andryane, mentre giustifica il Salvotti (!); cfr altre osservazioni del Luzio e il carattere tendenzioso e acrimonioso dei suoi scritti sul Risorgimento. Cfr G. Trombadori, Il giudizio del De Sanctis sul Guicciardini nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931; scrive il Trombadori: «La legittima ammirazione che tutti tributiamo al Luzio per l’opera da lui svolta nel campo degli studi sul nostro Risorgimento, non deve essere scompagnata dalla conoscenza dei limiti entro cui è chiusa la sua visione della storia, che sono un moralismo piuttosto esclusivistico e quella mentalità così schiettamente giuridica (ma è esatto dire giuridica? o non è piuttosto “giudiziaria”?) che lo ha fatto impareggiabile indagatore di carte processuali ecc. ecc.» (vedi il testo in caso di bisogno). Ma non si tratta solo di temperamento, si tratta specialmente di tendenziosità politica. Il Luzio potrebbe chiamarsi il Cesare Cantù del moderatismo conservatore (cfr Croce su Cantù nella Storia della storiografia italiana nel secolo XIX). Continuo la citazione sul Luzio del Trombadori: «Sono due atteggiamenti che si integrano e si completano a vicenda, per cui qualche volta ti sembra che la sua portentosa perizia nel sottoporre all’analisi deposizioni e testimonianze e “costituti” abbia l’unico fine di liberare qualcuno dalla taccia di vigliacco o di traditore, o di ribadirgliela, di condannare, o di assolvere. Così avviene che raramente egli si sottragga al gusto di accompagnare ai nomi di uomini che nella storia ebbero la loro parte grande o piccola, aggettivi come: vile, generoso, nobile, indegno e via dicendo». Perciò il Luzio partecipò alla polemica che si svolse negli anni scorsi sul Guicciardini, contro il giudizio del De Sanctis, naturalmente per difendere il Guicciardini»; l’intervento del Luzio anche in questo caso non è un fatto di «temperamento» di studioso, ma un fatto politico tendenziale: in realtà l’«uomo del Guicciardini» è il rappresentante ideale del «moderato italiano» sia esso lombardo, toscano o piemontese tra il 1848 e il 1870 e del moderno clerico-moderato, di cui il Luzio è l’aspetto «istoriografico».

È da notare che il Croce non cita, neppure per incidenza, il nome del Luzio nella sua Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, edizione del 1921, sebbene una parte dell’opera del Luzio risalga agli anni precedenti il 1900: mi pare che ne parli però nell’appendice pubblicata recentemente nella «Critica» e incorporata poi nella nuova edizione del libro.

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Storia degli intellettuali. Spunti di ricerca. § (22)

La repubblica di Platone. Quando si dice che Platone vagheggiava una «repubblica di filosofi» bisogna intendere «storicamente» il termine di filosofi che oggi dovrebbe tradursi con «intellettuali» (naturalmente Platone intendeva i «grandi intellettuali» che erano d’altronde il tipo di intellettuale del tempo suo, oltre a dare importanza al contenuto specifico dell’intellettualità, che in concreto potrebbe dirsi di «religiosità»: gli intellettuali di governo cioè erano quei determinati intellettuali più vicini alla religione, la cui attività cioè aveva un carattere di religiosità, intesa nel significato generale del tempo e speciale di Platone, e perciò attività in senso «sociale», di elevazione ed educazione [e direzione intellettuale, quindi con funzione di egemonia] della polis). Si potrebbe perciò forse sostenere che l”«utopia» di Platone precorre il feudalismo medioevale, con la funzione che in esso è propria della Chiesa e degli ecclesiastici, categoria intellettuale di quella fase dello sviluppo storico-sociale. L’avversione di Platone per gli «artisti»è da intendersi pertanto come avversione alle attività spirituali «individualistiche» che tendono al «particolare», quindi «areligiose», «asociali».

Gli intellettuali nell’Impero Romano. Il mutamento della condizione della posizione sociale degli intellettuali a Roma dal tempo della Repubblica all’Impero (da un regime aristocratico-corporativo a un regime democratico-burocratico) è legato a Cesare che conferì la cittadinanza ai medici e ai maestri delle arti liberali affinché abitassero più volentieri a Roma e altri vi fossero richiamati: «Omnesque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores, quo libentius et ipsi urbem incolerent et coeteri appeterent civitate donavit»: Svetonio, Vita di Cesare, XLII. Cesare si propose quindi:

  1. di far stabilire a Roma gli intellettuali che già vi si trovavano, creando così una permanente categoria di essi, perché senza la permanenza non poteva crearsi un’organizzazione culturale. Ci sarà stata precedentemente una fluttuazione che era necessario arrestare ecc.;
  2. di attirare a Roma i migliori intellettuali di tutto l’Impero romano, promovendo una centralizzazione di grande portata.

Così ha inizio quella categoria di intelelttuali «imperiali» a Roma, che continuerà nel clero cattolico e lascerà tante tracce in tutta la storia degli intellettuali italiani, con la loro caratteristica di «cosmopolitismo» fino al ‘700.


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