Processate Gramsci!
Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
1)Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Torgliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio. Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate recetemente: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino, 2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti per «La Repubblica». Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita costruzione priva di basi, condita però da una fervida e interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico. Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali» . Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale»[1]. In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra molti gramsciologi di professione è stato epurare l’opera di Gramsci dai legami con l’esperienza del leninismo e della III Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia[2]. Lenin non è un rivoluzionario idealista scontratosi con l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia, «la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica», e questo è forse il boccone più amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.
Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale. Se Lenin è per Gramsci il protagonista di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società, da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di «storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»[3] , al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale.
A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:
esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante [4] .
Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un «fronte culturale», a fianco di quelli meramente economici e politici.
La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico[5].
Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà[6] .
Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la formidabile articolazione fortificata della società liberale, i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle classi subalterne:
Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[7] .
Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene conto. Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione, mentre qualche parola è giusto spenderla per le «disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche un tantino di pudore:
Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato [8].
Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo, Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative dei committenti:
Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”. Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d’origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l’eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora[9].
Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa i comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini» del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai più elementari diritti del popolo palestinese da esso violentemente calpestati (altro che «l’elogio del cazzotto»!). Saviano accusa gli «extraparlamentari» di avere la «verità unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea possibile di libertà», al contrario per noi è lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del «fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda». Esso «indica l’arrogante uso di una parola (democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che esprime; e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato politico»[10] . È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre i comunisti sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono, comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto! “Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni della miglior produzione del Comitato per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra, è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio delle nazioni ricche su quelle povere. Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon, «i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione»[11] . Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto (autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo. Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale [12] rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci. Nella sua banale brutalità, l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non ci riusciranno nemmeno adesso.
29 febbraio 2012
note
[1] E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48
[2] Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1302.
[4] Ivi, pag. 1319.
[5] Ivi, pp. 1249-1250.
[6] Ivi, pp. 1231, 1232.
[7] Ivi, pag. 333.
[8] R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28 febbraio 2012.
[9] Ibid.
[10] L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pag. 17.
[11] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari, 1998, pag. 55.
[12] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.