Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

di Gianni Fresu


Convegno di studi
(1921- 2011) Nodi strategici, continuità e svolte nella storia del PCI
Roma, “La Sapienza”, Facoltà di lettere, 18-19 febbraio 2011.
(Atti in corso di pubblicazione)

Le Tesi di Lione sono state definite l’asse fondamentale di svolta nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci.
Prima, durante e dopo il Congresso si confrontarono e scontrarono due idee radicalmente opposte del partito, sinteticamente così riassumibili: su un versante, la visione del parito inteso come parte della classe, vale a dire, un’organizzazione articolata in cellule di fabbrica e innervata dalla formazione permanente di tutti i suoi quadri, che punta a realizzare una direzione/elaborazione diffusa delle stesse classi subalterne; sull’altro versante, il partito inteso come organo esterno alla classe, ossia, un’organizzazione ristretta di dirigenti rivoluzionari, temprati e incorruttibili, in grado di leggere nel quadro economico e sociale le contraddizioni fondamentali da cui far scaturire, al momento opportuno, le cause della detonazione rivoluzionaria .
Nel primo caso abbiamo l’idea di un partito con l’ambizione di aderire organicamente alla struttura produttiva – alla cui base sta una concezione molecolare della rivoluzione, metodologicamente avversa all’idea di una non ben identificata “ora X” – e intende articolare plasticamente la sua attività nell’azione quotidiana dei lavoratori. Nel secondo, un’elaborazione che ritiene lotta economica, per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e quella politica per la conquista quotidiana di posizioni di forza nella società, veicoli di mentalità corporativa e di corruzione della purezza rivoluzionaria. Per tale impostazione la connessione tra partito e masse doveva avvenire solo nel momento topico del conflitto di classe.
Il periodo dall’estate del 1925 al Congresso del gennaio 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali; un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. Le riflessioni di Gramsci in questa fase, sono la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere. Al contempo, essa è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».
La piattaforma congressuale della sinistra fu pubblicata sull’«Unità» del 7 luglio del 1925, essa ribadiva su tre assi fondamentali le posizioni già più volte espresse dal suo leader Amadeo Bordiga : 1) il partito andava inteso come organo della classe che sintetizza ed unifica le spinte individuali, in modo da andare oltre il particolarismo di categoria e raccogliere gli elementi provenienti dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori delle classi borghesi; 2) veniva respinta la “bolscevizzazione” – avanzata al V Congresso e riproposta dal «gruppo di centro» guidato da Gramsci – vale a dire la ripartizione organizzativa del partito in cellule su base di fabbrica. 3) veniva stigmatizzata la lotta alle frazioni avviata dal Comintern.
Tale impostazione trovò espressione compiuta nel progetto di Tesi per il Congresso. Secondo Bordiga, era impossibile mutare la sostanza delle situazioni oggettive, riconducibili al quadro più generale dei rapporti sociali di produzione, attraverso una determinata forma organizzativa. Un’organizzazione «immediata di tutti i lavoratori in quanto economicamente tali» sarebbe risultata costantemente dominata dagli impulsi delle diverse categorie professionali a soddisfare i propri interessi economici particolari determinati dallo sfruttamento capitalistico. Da ciò la profonda diffidenza, manifestata già ai tempi della stagione consiliare , verso l’impegno del partito nelle vertenze dei lavoratori. Nello stesso numero del 7 luglio dell’«Unità», Gramsci s’incaricò di stendere una replica estremamente importante. In essa, già si può cogliere appieno la continuità con l’elaborazione degli anni dell’«Ordine Nuovo», sul tema dell’autonomia dei produttori, e trova un primo abbozzo l’idea dell’intellettuale come prodotto autonomo della classe, l’affermazione secondo cui ogni lavoratore entrando nel partito comunista ne diviene un dirigente e dunque un’intellettuale. Il «Comitato d’intesa» concepiva il partito come sintesi di elementi individuali e non come un movimento di massa e di classe, in ciò andava rintracciata la radice della teoria del partito di Bordiga:

In questa concezione c’é una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali, solo gli intellettuali possono essere uomini politici. Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l’oppressione capitalistica l’operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. Che cos’é allora il partito? È solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti che riflettono e sintetizzano gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche nel partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l’altro, portato al fenomeno del mandarinismo sindacale. (…) Gli operai entrano nel partito comunista non soltanto come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l’operaio entra nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria .

Secondo Gramsci la concezione del partito di Bordiga era ferma alla prima fase dello sviluppo capitalistico, ancora nel 1848 si sarebbe potuto affermare che «il partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocati dalla lotta di classe», ma nella fase del maggior sviluppo capitalistico, l’imperialismo, il proletariato era profondamente rivoluzionario, assolveva già una funzione dirigente nella società. Sempre in questo periodo Gramsci scrisse un’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito. In essa l’obbiettivo di rinforzare ideologicamente e politicamente i quadri e i militanti, era posto come obbiettivo primario di un partito che intendesse diventare di massa. La formazione era il modo per rendere l’operaio comunista un dirigente e non lasciare la lotta ideologica nelle mani esclusive degli intellettuali borghesi:

L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Servì da prezzemolo a tutte le salse più indigeste che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini… .

In questa introduzione Gramsci contestò esplicitamente, la concezione del partito così come esposta nelle Tesi sulla tattica del Congresso di Roma:

[in esse] La centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri politici e distintivi e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. (…) La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria .

Il compito di costituire le cellule di fabbrica era per Gramsci un’occasione di autoeducazione della classe operaia; le cellule, da semplice strumento organizzativo, si trasformano in organo principe nella formazione degli intellettuali «organici» della classe operaia, possono contribuire alla determinazione dell’autonomia della classe operaia dall’apporto esterno borghese: «La cellula trasforma ogni membro del partito in un militante attivo assegnando ad ognuno un lavoro pratico e sistematico. Attraverso questo lavoro si crea una nuova classe di dirigenti proletari, legati alla fabbrica, controllati dai compagni di lavoro, in modo cioè da non potersi trasformare in funzionari e mandarini, fenomeno che si verifica in larga parte in tutti i partiti che hanno conservato la vecchia struttura dei partiti socialisti» .
Nella sua relazione alla riunione della Commissione politica per il Congresso Gramsci provò a riassumere i punti di dissenso tra «la centrale del partito» e l’estrema sinistra» in tre livelli di rapporti: tra gruppo dirigente del partito e l’insieme degli iscritti; tra gruppo dirigente e classe operaia; tra classe operaia e resto delle classi subalterne:

La nostra posizione [scrive Gramsci] deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe non solo da legami ideologici ma anche da legami di carattere fisico. (…) Secondo la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo sintetico; per noi è un processo di carattere storico e politico, legato strettamente a tutto lo sviluppo della società capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in un modo diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra, svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato tra il partito e la classe operaia .

La questione teorica dell’organizzazione per cellule, poneva in rilievo la necessità di «legami fisici» tra partito e classe nel suo complesso, mentre, nell’affermare la necessità di una «tutela» direttiva da parte del gruppo dirigente «specializzato», Bordiga poneva quale problema assoluto il rischio di corporativismo tra gli operai. Ciò, per Gramsci, lasciava trasparire una concezione paternalistica che svalutava fortemente la capacità di direzione della classe operaia, fino a ridurla a soggetto minorenne incapace di autodeterminazione politica.
Già nel corso del dibattito pre-congressuale, e in misura ancora maggiore al Congresso di Lione, Gramsci poneva la teoria sul partito della sinistra in continuità con tutta la storia degli intellettuali in Italia, con la filosofia crociana e le tradizioni elitarie ed oligarchiche della filosofia politica idealista e liberale. Un concetto poi ripreso nei Quaderni dove Gramsci mise sullo stesso piano l’atteggiamento intellettualistico, da «intellettuale puro», di Bordiga con quello di Croce.

Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano avvelenare e mordere dalle proprie vipere. (…) La posizione di «puro intellettuale» diventa un vero e proprio «giacobinismo» deteriore e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amedeo può essere avvicinato al Croce .

Trattando il tema del rapporto tra la classe operaia e il resto degli sfruttati, e rendendolo pilastro delle tesi congressuali, Gramsci colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze . Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna» . Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.
Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci .
Già nel Congresso di Lione si pongono tre ordini di problemi che finiranno per costituire la spina dorsale dello scritto su La questione meridionale: la questione meridionale intesa come questione contadina; il tema del partito politico della classe contadina; La funzione reazionaria svolta dal Vaticano.
L’atteggiamento verso il fascismo delle Tesi di Roma, e più in generale l’impostazione teorica di Bordiga, la sua tendenza a svalutare le differenze tra quadro democratico e reazionario, erano Gramsci esempi lampanti di un modo errato di concepire la tattica. Come già accennato in apertura, le Tesi di Lione segnano una completa svolta anche sul piano dell’analisi relativa alla società italiana, anticipando molteplici aspetti dell’elaborazione carceraria di Gramsci. Nel periodo di crisi successivo al delitto Matteotti non sarebbe stato sufficiente condurre una campagna di critica ideologica al regime e alle opposizioni, limitarsi a una propaganda capace solo di trattare allo stesso modo i due soggetti, era necessario incalzare le opposizioni ponendole sul terreno del rovesciamento del fascismo, come premessa preliminare a qualsiasi altra azione di comunisti.

È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione .

Quando il fascismo stava sorgendo e sviluppandosi il PCd’I si era limitato a considerarlo un organo di combattimento della borghesia e non anche un movimento sociale, questo non mise il partito nelle condizioni di arginarne l’avanzata e di opporsi alla sua ascesa al potere con un’azione politica appropriata; anzi lo spinse a lavorare contro gli «arditi del popolo», un movimento di massa dal basso che il partito avrebbe dovuto contribuire a sviluppare e dirigere.
Anche l’obiettivo della sconfitta del fascismo andava posto in relazione al problema dell’egemonia della classe operaia verso le masse contadine:

La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire .

L’elemento predominante della società italiana era una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza della popolazione e un’agricoltura, ancora base economica del paese, segnata dalla netta prevalenza di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi alle condizioni del proletariato e perciò potenzialmente sensibili alla sua influenza.
Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza del modo di produzione in Italia – privo di materie prime – spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi latifondisti agrari, basate su «una solidarietà d’interessi» tra ceti di privilegiati a detrimento delle esigenze produttive generali. Anche il processo risorgimentale fu espressione di questa debolezza, perché la costruzione dello Stato nazionale si realizzò grazie allo sfruttamento di particolari fattori di politica internazionale e il suo consolidamento rese necessario quel compromesso sociale che ha reso inoperante in Italia la lotta economica tra industriali e agrari, la rotazione di gruppi dirigenti, tipici di altri paesi capitalistici. Questo compromesso a tutela di uno sfruttamento parassitario delle classi dominanti ha determinato una polarizzazione tra l’accumulo di immense ricchezze in ristretti gruppi sociali e la povertà estrema del resto della popolazione, ha comportato il deficit del bilancio, l’arresto dello sviluppo economico in intere aree del Paese, ha ostacolato una modernizzazione del sistema economico nazionale armonica e calibrata con le caratteristiche della nazione.
Anche i rovesci nella prima parte della guerra mondiale e lo stesso avvento del fascismo sono analizzati nelle Tesi alla luce di questa debolezza originaria dell’Italia, anticipando un canone interpretativo centrale nelle riflessioni sul Risorgimento dei Quaderni. Il compromesso tra industriali e agrari attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stesa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quell’agraria. Ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse.
Il periodo di maggior debolezza dello Stato italiano si era determinato per Gramsci nel decennio 1870-1890, soprattutto per l’azione svolta dal Vaticano di catalizzatore del blocco reazionario antistatale costituito dai residui di aristocrazia, dagli agrari, dalle popolazioni rurali dirette dai proprietari terrieri e dalle parrocchie. Il Vaticano aveva manifestato di voler operare su due fronti: da un lato esplicitamente contro lo Stato borghese unitario e liberale; dall’altra, nel tentativo di costituire, attraverso i contadini, una sorta di esercito di riserva per sbarrare la strada all’avanzamento del movimento operaio socialista.
L’equilibrio instabile del nuovo Stato, la distanza tra istituzioni e popolo, è uno dei temi fondamentali di indagine dei Quaderni del carcere. Basti pensare, ad esempio, alle note in cui Gramsci si sofferma sulla formula retorica (escogitata dai clericali) che tendeva a contrapporre un’Italia reale, composta dalla maggioranza cattolica avversa al nuovo Stato unitario, a un’Italia legale costituita da una minoranza di esaltati patrioti votati alla causa nazionale e all’idea liberale. Per quanto la formula fosse comparsa in un contesto politico editoriale da «insulso libello da sacrestia», essa era per Gramsci assai efficace dal punto di vista polemico perché indicava bene la separazione esistente tra il nuovo Stato e la società civile. Ovviamente, la società civile non poteva certo essere tutta compresa nel fronte clericale, poiché appariva largamente disomogenea e informe. E proprio per la sua natura disgregata, lo Stato non ebbe difficoltà a dominarla superando le contraddizioni e i conflitti che esplodevano in maniera episodica e localistica, al di fuori di ogni coordinamento sul piano nazionale e tendente a un fine determinato.
Dunque, al di là di una situazione oggettiva di separatezza tra Stato e società, lo stesso clericalismo non poteva considerarsi espressione reale della società civile, sulla quale mostrava difficoltà a esercitare una reale direzione efficace. La Chiesa, in realtà, temeva quelle stesse masse popolari, che pure controllava, perché intravvedeva la possibilità di una loro sollevazione. Anche la formula del «non expedit» era per Gramsci il segno di questa paura e incapacità politica: l’atteggiamento di boicottaggio del nuovo Stato che esso prefigurava risultava alla fine oggettivamente sovversivo. Questo spiega perché, con la crisi di fine secolo e i fatti del 1898, la reazione dello Stato si fosse abbattuta sia verso i primi vagiti di organizzazione socialista, sia verso quella clericale. L’abbandono della politica espressa dalla formula «né elettori, né eletti» da parte del Vaticano, che avrebbe portato prima al Patto Gentiloni e poi alla nascita del Partito popolare ebbe origine dalla constatazione di quel fallimento.
Una vera scissione tra paese reale e paese legale si ha per Gramsci nei fatti che lacerano il paese dall’inizio della crisi Matteotti fino al varo delle leggi fascistissime, quando la scissione tra paese reale e paese legale viene superata attraverso la soppressione dei partiti politici, delle libertà individuali e collettive, e l’inquadramento militare della società civile in un’unica organizzazione politica che faceva coincidere Stato e partito.
Il periodo che va dal 1890 al 1900 è il primo nel quale la borghesia si pone concretamente il problema di organizzare la propria dittatura. È un periodo contrassegnato da una serie di interventi politici e legislativi della svolta protezionista – a favore della grande produzione industriale (in particolare l’industria meccanica) e dell’agricoltura latifondista (grano, riso, mais) – che porta alla denuncia dei trattati commerciali con la Francia, all’ingresso dell’Italia nell’orbita della triplice alleanza a guida tedesca. In questa fase si salda ulteriormente l’asse tra industriali e proprietari terrieri strappando i ceti rurali al controllo del Vaticano in chiave antiunitaria.
Al saldarsi del blocco industriali-agrari corrispondono però i progressi delle organizzazioni operaie e la ribellione delle masse contadine. Nella definizione del fascismo le Tesi raggiungono il loro livello più elevato di analisi e concettualizzazione, introducendo un nuovo modello interpretativo del fenomeno destinato a fare scuola in sede storiografica e non solo all’interno del campo marxista.
Il fascismo rientrava appieno nel quadro tradizionale delle classi dirigenti italiane, esso assumeva la forma della reazione armata con il preciso scopo di scompaginare le fila nelle organizzazioni delle classi subalterne e per questa via garantire la supremazia dei ceti dominanti. Per questa ragione esso al suo comparire è favorito e protetto indistintamente da tutti i vecchi gruppi dirigenti, anche tra di essi sono soprattutto gli agrari a finanziare e lanciare le squadre fasciste contro il movimento dei contadini. La base sociale del fascismo però è composta dalla piccola borghesia urbana e dalla nuova borghesia agraria.
Il fascismo trova una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni paramilitari che ereditano la tradizione dell’arditismo e la applicano alla guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori. Per le Tesi, il fascismo attua il suo piano di conquista dello Stato con una «mentalità di capitalismo nascente» in grado di fornire alla piccola borghesia un’omogeneità ideologica in contrapposizione con i vecchi gruppi dirigenti.

Nella sostanza il fascismo modifica il programma della conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari .

Tuttavia, il metodo fascista di difesa dell’ordine, della proprietà e dello Stato non riesce a realizzare, immediatamente e totalmente, questo livello di centralizzazione della borghesia con la presa del potere. Anzi la traduzione politica ed economica dei suoi propositi produce varie forme di resistenza all’interno delle stesse classi dirigenti. I due tradizionali orientamenti della borghesia liberale italiana, quello riconducibile al giolittismo e quello riconducibile al «Corriere della Sera», non vengono subito assorbiti o piegati dalla presa del potere di Mussolini. In tal senso si spiega la lotta contro i gruppi superstiti della borghesia liberale e contro la massoneria, vale a dire contro il suo principale centro di attrazione e organizzazione in sostegno dello Stato.
Sul piano economico il fascismo agisce a totale vantaggio delle grandi oligarchie industriali ed agrarie disattendendo le aspirazioni della sua stessa base sociale, la piccola borghesia, che dall’avvento del fascismo sperava di trarre un avanzamento nelle condizioni sociali ed economiche. Ciò avviene sul piano delle politiche commerciali, con l’inasprimento del protezionismo doganale, su quello finanziario, con la centralizzazione del sistema del credito a beneficio della grande industria, così come sul versante della produzione, con un aumento delle ore di lavoro e la diminuzione delle retribuzioni. Ma il vero punto di approdo del fascismo si ha nella politica estera e nelle aspirazioni imperialistiche, rispetto alle quali le Tesi avanzano un’idea che si concretizzerà quattordici anni appresso.

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all’imperialismo. Questa tendenza è l’espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialistici che si contendono il dominio de mondo .

Le Tesi di Lione rappresentano la consacrazione del «nuovo corso» nel PCI e in esso del gruppo dirigente guidato da Gramsci, nato attorno all’«Ordine Nuovo» nei tumultuosi anni del dopoguerra; in esse si ha la saldatura della nuova prospettiva politica con il percorso politico intellettuale del vecchio gruppo torinese. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione.
L’indicazione lanciata dai Congressi dell’Internazionale, costruire dei partiti di massa radicati nei luoghi di lavoro attraverso le cellule di fabbrica (la cosiddetta bolscevizzazione), è raccolta e sviluppata dal vecchio gruppo «ordinovista» attraverso la rielaborazione dei temi forti emersi nel «biennio rosso» dall’esperienza del movimento consiliare, alla quale del resto le Tesi fanno esplicito riferimento:

La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e inferiori della massa lavoratrice e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di aristocrazia operaia. La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi organizzativi (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice .

In questa definizione trovava piena e compiuta collocazione il tema del rapporto tra dirigenti e diretti, tra intellettuali e masse, secondo i termini classici dell’elaborazione gramsciana. Per Gramsci, nello scontro interno al partito, la distinzione tra i due diversi modi di intendere la rivoluzione era netta: da una parte le masse sono considerate massa di manovra, strumenti della rivoluzione; dall’altra le si intende soggetto protagonista e cosciente di essa. Nei Quaderni questo argomento è ampiamente svolto proprio a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva caratteristica della società borghese. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava dunque solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate». Il supermento del «cadornismo» doveva pertanto avvenire attraverso il sostituirsi nella funzione direttiva di organismi politici collettivi e diffusi ai singoli individui, ai «capi carismatici», fino a sconvolgere i vecchi schemi «naturalistici» dell’arte politica. L’antidoto al «capo carismatico», tema questo di grandissima attualità, doveva essere l’intellettuale collettivo, il ruolo protagonistico e non delegato delle classi subalterne. Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la «boria di partito». Rispetto a tutti questi temi le Tesi di Lione rappresentanto uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci sono un punto di continuità tra le battaglie pre 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal “disinteressato” «uomo di cultura» tanto caro alle recenti vulgate di molti studiosi, forse eccessivamente disinvolti nel servirsi della sua biografia per perseguire fini ben diversi dalle sbandierate esigenze di ricerca scientifica.

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“Madonna evoluzione” e materialismo storico: il rapporto Gramsci-Labriola

International Gramsci Society III Convegno internazionale di studi Antonio Gramsci un sardo nel “mondo grande e terribile” (Cagliari-Ghilarza-Ales 3-6 maggio 2007)

Di Gianni Fresu

La distanza di Antonio Gramsci dalle matrici filosofiche positiviste e del determinismo economico ha trovato più di una trattazione autorevole, tuttavia, ritornare su tale tema non è mai superfluo, almeno se si vuole cogliere uno degli elementi più caratteristici dell’elaborazione teorica gramsciana maggiormente presenti nel dibattito marxista del Novecento.
Nelle diverse fasi della sua attività, Gramsci ha sempre individuato nell’impostazione filosoficamente angusta data dai teorici della Seconda Internazionale al movimento socialista mondiale, uno dei limiti che maggiormente ha influito sulle deficienze socialismo italiano.
Quando, tra Ottocento e Novecento, il marxismo si affermò nel movimento operaio, esso fu veicolato da intellettuali in gran parte dei casi giunti a Marx attraverso Darwin e lo studio positivistico delle scienze sociali. La diffusione del marxismo nel movimento operaio tedesco trovò due veicoli straordinari nel settimanale «Sozialdemocrat», pubblicato a Zurigo sotto la supervisione di Whilelm Liebknecht, e nella «Neue Zeit» nata nel settembre del 1882 a Salisburgo attorno a Kautsky, Liebknecht, Bebel e Dietz.
La «Neue Zeit» si affermò come la prima rivista teorica di un partito operaio e divenne il principale organo di approfondimento del marxismo nella Seconda Internazionale ; sull’opera di diffusone del marxismo da parte di questa rivista influì enormemente l’impostazione culturale dei suoi fondatori, nella quale il rapporto stesso con il marxismo risultava mediato dalle suggestioni positiviste, dalla fiducia nella scienza e nel progresso, dal primato assoluto attribuito alle scienze sociali. La storia di questa rivista, dei suoi dibattiti, delle sue svolte, è nei fatti la storia del marxismo della Seconda Internazionale, di cui Ernesto Ragionieri ha fornito una sintetica quanto efficace definizione: «Per marxismo della II Internazionale si intende in genere, una interpretazione ed elaborazione del marxismo che rivendica un carattere scientifico alla sua concezione della storia in quanto ne indica lo sviluppo in una necessaria successione di sistemi di produzione economica, secondo un processo evolutivo che soltanto al limite contempla la possibilità di rotture rivoluzionarie emergenti dallo sviluppo delle condizioni oggettive » .
Per Gramsci il marxismo è stato un momento fondamentale della cultura moderna capace di fecondare alcune correnti assai importanti al di fuori del proprio campo. Ciò nonostante, i «marxisti ufficiali» di fine Ottocento trascurarono questo fenomeno, perché il tramite tra il marxismo e la cultura moderna era rappresentato dalla filosofia idealista . Nelle sue note Gramsci ritornò più volte sulla doppia revisione subita dal marxismo tra Ottocento e Novecento: da un lato alcuni suoi elementi furono assorbiti da certe correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson); dall’altra i cosiddetti «marxisti ufficiali», preoccupati di trovare una filosofia che contenesse il marxismo, la trovarono nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche nel neo-kantismo. I «marxisti ufficiali» hanno cercato al di fuori del materialismo storico una concezione filosofica unitaria proprio perché la loro concezione si basava sull’idea dell’assoluta storicità del marxismo, come prodotto storico dell’azione combinata della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, mentre ne ignoravano completamente la matrice filosofica tedesca. In un tale contesto, all’interno del panorama marxista italiano, Labriola era per Gramsci il solo ad essersi distinto nel porre il marxismo come filosofia indipendente ed originale e aver cercato di «costruire scientificamente» la filosofia della praxis. Nei Quaderni 3 e 11, Gramsci definisce «stupefacente» il fatto che Trockij parlasse di dilettantismo in rapporto al marxismo di Labriola. In questa posizione egli vedeva un riflesso della «pedanteria pseudoscientifica» di intellettuali tedeschi come Kautsky, tanto influenti nella tradizione della socialdemocrazia russa e delle opinioni di Plechanov. In queste note si rilevava come la tendenza dominante avesse creato due correnti: una riconducibile al «materialismo volgare» ben rappresentato proprio da Plechanov, incapace per Gramsci di impostare il problema della cultura filosofica di Marx e dunque il tema delle «fonti del marxismo»; una tendenza opposta, sebbene creata dalla prima, impegnata a coniugare il marxismo con Kant, secondo cui, in ultima analisi, «il marxismo può essere sostenuto o integrato da qualsiasi filosofia». Nella «fase romantica della lotta», la poca fortuna di Labriola nella pubblicistica della socialdemocrazia, era dovuta all’eccessiva sottolineatura delle armi più immediate e dei problemi della tattica politica. Il quadro mutò al momento di edificare lo Stato socialista:

Dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominante. Questa è una lotta per la cultura superiore la parte positiva della lotta per la cultura che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a-privati e gli anti- (anticlericalismo, ateismo ecc.). Questa è la forma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato .

Per Gramsci con lo sviluppo delle forze produttive e l’assunzione da parte della classi subalterne di funzioni dirigenti e non più delegate, le posizioni più primitive e meccanicistiche del marxismo andavano necessariamente superate. In questo sforzo di maturazione, Gramsci attribuiva proprio all’impostazione del problema filosofico di Labriola una funzione centrale, al punto da affermare che essa sarebbe dovuta divenire predominante. A tal fine in una nota del Quaderno 8 è indicato il compito di uno studio obbiettivo e sistematico sulla dialettica di Labriola, capace do chiarire il suo percorso dalle originarie posizioni herberteriane e antihegeliane al materialismo storico.
Indagare le ragioni per le quali il marxismo è risultato assimilabile, per alcuni suoi aspetti non trascurabili, tanto all’idealismo quanto al materialismo volgare era secondo Gramsci un compito estremamente complesso, perché avrebbe dovuto non solo chiarire quali elementi fossero stati assorbiti «esplicitamente» dall’idealismo e da altre correnti di pensiero, ma anche svelare gli assorbimenti «impliciti» e non confessati. Il marxismo, infatti, è stato un momento della cultura, un’atmosfera diffusa che in quanto tale ha modificato, spesso inconsapevolmente, i vecchi modi di pensare. Costruire una storia della cultura moderna dopo Marx ed Engels, perché di ciò si trattava, richiedeva uno studio rigoroso degli insegnamenti pratici lasciati in dote dal marxismo a partiti e correnti di pensiero ad esso avverse. La ragione per la quale gli «ortodossi» della Seconda Internazionale hanno operato una combinazione della filosofia della praxis con altre filosofie e concezioni, andava ricercata nella necessità di combattere tra le masse popolari i residui del mondo precapitalistico, derivanti in particolare dalla concezione religiosa. Il marxismo aveva contemporaneamente il compito di combattere le ideologie più elevate delle classi colte, e di far uscire le masse da una cultura ancora medievale ponendole in condizione di produrre un proprio gruppo di intellettuali indipendenti dalla cultura delle classi dominanti. Proprio questo secondo compito di carattere pedagogico ha finito per assorbire gran parte delle energie «quantitative» e «qualitative» del movimento:
Per «ragioni didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo
Antonio Labriola arrivò al socialismo attraverso un lungo e meditato percorso di avvicinamento filosofico e politico, che lo distingue fortemente dai teorici della «Neue Zeit», con i quali si trovò in più riprese a polemizzare, avanzando l’esigenza di un diverso approccio al marxismo, da lui definito «comunismo critico». Nelle sue dispute contro il «dilettantismo di tanti neofiti della causa socialista», Labriola si contrappose alle combinazioni spurie tra il marxismo e le costruzioni forzatamente unitarie e sistemiche, proprie del positivismo e dell’evoluzionismo applicato alle teorie sociali. Uno dei prodotti storici più nefasti della cultura del tempo era per Labriola il verbalismo, vale a dire un culto smodato delle parole che porta a corrodere il senso reale e vivo delle «cose effettuali», a occultarle, a trasformarle in termini, parole e modi di dire astratti e convenzionali:
Il verbalismo tende sempre a chiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato e immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicato e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi perché non vede che denominazioni .
Quando il verbalismo si unisce alle supposizioni teoretiche di una falsa contrapposizione tra materia e spirito, immediatamente pretende di spiegare tutto quel che riguarda l’uomo facendo affidamento al solo calcolo degli interessi materiali fino a contrapporre questi agli interessi ideali e ridurre meccanicamente i secondi ai primi. La causa di questo modo d’intendere il materialismo storico era riconducibile all’impreparazione e all’improvvisazione di tanti intellettuali scopertisi propugnatori del marxismo, i quali hanno cercato di spiegare agli altri ciò che essi stessi non avevano ancora compreso a pieno, estendendo alla storia le leggi e i modelli concettuali che avevano trovato proficua attuazione nello studio e nella spiegazione del mondo naturale ed animale. Ma la storia dell’uomo riguarda i processi attraverso i quali questo soggetto può creare e perfezionare i suoi strumenti di lavoro e tramite gli strumenti modifica l’ambiente in cui è inserito fino a crearne uno nuovo e artificiale che a sua volta reagisce e produce molteplici effetti sopra di lui; la storia, secondo l’uso della parola, vale a dire quella parte del processo umano che si esprime nella tradizione e nella memoria, inizia quando la creazione di questo terreno artificiale si è già prodotta, quando l’economia è già in funzione. La scienza storica ha per suo oggetto fondamentale proprio la conoscenza di questo terreno artificiale, delle sue forme originarie, delle sue trasformazioni, e solo l’abuso dell’analogia e la fretta di arrivare a delle conclusioni, può portare a dire che tutto questo non è se non parte e prolungamento della natura. Dunque, secondo Labriola, mancano tutte le ragioni per ricondurre questo processo evolutivo riguardante l’uomo e il suo ambiente, appunto la storia, alla pura e semplice lotta per l’esistenza, non c’é ragione per confondere il darwinismo con il materialismo storico, né di rievocare e servirsi di una qualunque forma, «mitica, mistica o metaforica», di fatalismo. Pertanto è priva di fondamento quell’opinione che tende a negare ogni ruolo alla volontà e che pretende di sostituire al volontarismo l’automatismo. La tendenza a trasformare in pedanteria e «novella scolastica» qualunque trovato del pensiero, piuttosto che dedicarsi alla ricerca critica, ha fatto si che «la fantasia degli inesperti d’ogni arte e ricerca storica e lo zelo dei fanatici, trovasse stimoli ed occasioni persino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenze e a disegno» . Per Labriola invece il materialismo storico non è, e non pretende di essere, la visione intellettuale di un grande piano o disegno, ma è un metodo di ricerca e concezione. Le critiche più varie dei detrattori delle teorie di Marx ed Engels, hanno esercitato i loro effetti più nefasti proprio tra i socialisti ed in particolare tra quei giovani intellettuali che tra gli anni 70 e 80 si dedicarono alla causa del movimento operaio:
Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo lì, si misero sulla via di proclamarsi seguaci della teoria marxista pigliando proprio per moneta contante il marxismo più o meno inventato dagli avversari» ed è così che questi «mescolando cose vecchie a cose nuove arrivarono a credere, che la teoria del sopravvalore, come si presenta solitamente semplicizzata in semplici esposizioni, contenesse hic et nunc il canone pratico, la forza impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di tutte le rivendicazioni proletarie .
Tra gli anni 70 e 80 si formò un neoutopismo – mosso da un’idea malsana della «filosofia universale», nella quale il socialismo doveva essere ben inserito come la parte nella visione del tutto – letteralmente, il brodo di cultura nel quale trovarono il giusto microclima tutti gli spropositi del determinismo socialista. In una lettera scritta a Turati , Labriola descrisse il percorso filosofico che lo aveva condotto a Marx, affermando che se anche poteva dirsi socialista da non più di dieci anni, era in grado comunque di dichiarare – grazie ai suoi studi e alla sua attività accademica – di aver già fatto per tempo i conti con il positivismo, il neokantismo e che pertanto tutto poteva fare tranne che farsi ribattezzare da Darwin e Spencer. Egli non pretese di ricevere dal marxismo l’ABC del sapere e non cercò se non quel che esso conteneva, vale a dire la sua critica dell’economia politica, i lineamenti del materialismo storico, la politica del proletariato enunciata. Per Luigi Dal Pane Labriola vide nel materialismo storico «il punto di partenza di impensati svolgimenti», perché nelle opere di Marx ed Engels il materialismo era un filo conduttore, una linea di tendenza, non la concatenazione dogmatica di principi espressi in forma precisa e, soprattutto, definitiva:
Di fatto il Marx e l’Engels non pensarono a compiere un lavoro sistematico di organizzazione della nuova dottrina e, nei vari momenti della loro vita, secondo le circostanze che li spronavano, fermaron la mente ora sopra uno, ora sopra l’altro aspetto della vita umana storica, senza un ordine logico prestabilito e rigoroso. Avvenne così che segnarono qualche grande schema, alcune linee maestre, veramente utili ed importanti per chi abbia la capacità di farle rivivere, di poco rilievo invece per chi le enuncia in una forma astratta .
Il marxismo dunque non come formula astratta, data dalla distinzione netta e dalla successione matematica tra categorie economiche ideologiche, bensì una «concezione organica della storia» come unità e totalità della vita sociale, nella quale anche l’economia, anziché «estendersi astrattamente a tutto il resto», è concepita storicamente . Labriola si formò nella Napoli protagonista della seconda fioritura dell’hegelismo, si avvicinò a Marx avendo già nel suo bagaglio filosofico una profonda conoscenza della dialettica . Per Labriola in ciò andava ricercata la distinzione tra la sua concezione della filosofia della prassi e quella dei tanti intellettuali marxisti-positivisti della nuova generazione, responsabili, a suo dire, di confondere «la linea di sviluppo che è propria del materialismo storico, (…) con quella malattia celebrale che da anni già ha invaso i cervelli di quei molti italiani che parlano ora di una madonna evoluzione, e l’adorano» . Ecco un punto essenziale individuato da Labriola sul quale Gramsci ritorna più volte: l’incontro tra positivismo e marxismo e la volgarizzazione deterministica di questo, ha tra le varie cause il fatto che la dialettica hegeliana fosse in gran parte dei casi totalmente sconosciuta a quanti si posero a propugnare il marxismo.
Questa lettura trova un’autorevole conferma nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873, dove Karl Marx – pur richiamandosi alla critica condotta trent’anni prima al «lato mistificatore della dialettica hegeliana» – sentiva il bisogno di prendere le distanze dai «molesti, presuntuosi e mediocri epigoni» che al tempo si permettevano di trattare Hegel come «un cane morto». In questo poscritto, oltre ad ammettere di avere «civettato qua e là» col modo di esprimersi peculiare a Hegel, nella parte relativa alla teoria del valore, Marx si professava apertamente scolaro del «grande pensatore» . Ma lo scritto più importante da questo punto di vista è sicuramente il Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca del 1888, nel quale Engels sentì il bisogno di ripartire dagli elementi essenziali della dialettica hegeliana per riaffermarne il primato rispetto alle concezioni del materialismo più rozzo e meccanico. Engels si prese la briga di ritornare sul progetto che nel 1845 lui e Marx si erano proposti di realizzare: fare i conti con la loro stessa formazione filosofica, riaffrontare la concezione ideologica della filosofia tedesca.
Significativamente, Engels fece iniziare la pubblicazione del suo saggio su Feuerbach sulla «Neue Zeit» proprio mentre venivano pubblicate le ultime puntate del saggio di Kautsky su La miseria della filosofia, nel quale questa concezione era ampiamente e sistematicamente esposta. Nel Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia tedesca, Engels si richiamò al «vecchio Hegel», e al carattere rivoluzionario della sua dialettica, riconoscendo nel movimento operaio tedesco l’erede della filosofia classica tedesca. Questo richiamo sulla formazione filosofica del socialismo scientifico, costituiva secondo vari studiosi – primo fra tutti Ernesto Ragionieri – una risposta di Engels alle concezioni delle nuove leve che si accostavano al marxismo .
Antonio Labriola costituiva un caso a parte nel panorama del socialismo italiano sia per la sua formazione filosofica, sia per essere a conoscenza del dibattito più avanzato in seno alla Seconda Internazionale. Così, se nel Ludwig Feuerbach il tributo e il costante richiamo alla filosofia di Hegel assumeva un significato polemico nei confronti della nuova vulgata socialista, la critica alle imperdonabili semplificazioni di questa era ancora più esplicita in una lettera del 27 ottobre 1890:

Quel che manca a tutti questi signori è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito .

Tuttavia la chiarificazione più interessante in proposito è contenuta in uno scambio di vedute tra Engels e Marx in due lettere scritte tra l’8 e il 9 maggio del 1870. Nella prima lettera Engels si lamentò con Marx perché Wilhelm Liebknecht, in qualità di editore, decise di aggiungere in glossa marginale alla sua pubblicazione La guerra dei contadini una precisazione (non richiesta e soprattutto non condivisa) su Hegel. Questo commento fece andare su tutte le furie Engels, il quale, dopo aver definito Liebknecht «animale» e la glossa un’autentica «stupidaggine» così di espresse:

Costui commenta ad vocem Hegel: al largo pubblico noto come scopritore(!) e elogiatore (!!) dell’idea dello Stato (!!!) regio-prussiana (…) questo somaro che per anni s’è tormentato sulla ridicola antitesi fra diritto e potere senza capacitarsi, come un soldato di fanteria montato su un cavallo bizzarro e chiuso in un galoppatoio, quest’ignorante ha la sfrontatezza di voler liquidare un tipo come Hegel con la parola prussiano e di dar a intendere al pubblico che l’abbia detto io. Ne ho abbastanza ora se W[ilhelm] non pubblica la mia dichiarazione, mi rivolgerò ai suoi superiori, al comitato, e se anche costoro cercheranno di manovrare, proibirò l’ulteriore pubblicazione. Meglio non pubblicato affatto che essere in tal modo proclamato asino da W[ilhelm]» Non meno dura è la risposta del 10 maggio da parte di Marx: «Ieri ho ricevuto l’accluso foglietto di Wilhelm. Incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale.(…) gli avevo detto che, se su Hegel non era in grado di far altro se non ripetere le vecchie porcherie di Rotteck e Welckler, se ne stesse piuttosto zitto. Questo egli lo chiama trattare Hegel un po’ meno cerimoniosamente ecc., e, se lui scrive scemenze sotto i saggi di Engels, Engels allora può ben (!) dire cose più particolareggiate(!!). costui è davvero troppo stupido
A sua volta, Marx, rispondendo alla lettera di Engels liquidò l’intera vicenda definendo Liebknecht «incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale» . Al di là del caso specifico, questo modo di intendere il materialismo storico era per Engels, come per Marx, frutto di un fraintendimento grossolano, ciò trova la sua conferma più chiara nella lettera scritta a Bloch il 20 settembre del 1890.

Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura (…) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (…) se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado .

Tutte le tendenze deterministe del materialismo storico hanno trovato poi cittadinanza nella parte generale del programma di Erfurt del 1891 – scritto proprio da Kautsky – non solo votato dalla socialdemocrazia tedesca, ma presto divenuto un’importante assunto teorico per tutti gli altri partiti socialisti, compreso quello italiano . Se da un lato, sull’affermarsi di certe interpretazioni tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno influito le concrete esigenze del movimento operaio, dall’altra sicuramente ha avuto una certa importanza anche il fatto, che la tesi sull’inevitabilità della fine del modo di produzione capitalistico, come una «necessità storica», pareva offrire un’adeguata spiegazione alla grande depressione di quegli anni. Lo stato d’instabilità e la vulnerabilità della società borghese, create dalla più grande crisi della produzione capitalistica fino ad allora, unito al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori per quasi vent’anni, sembrarono una materializzazione delle teorie sulla «miseria crescente» e della «crisi finale» .
Ma per tornare a Gramsci, nelle sue note, Labriola è un costante punto di riferimento, se vogliamo l’antidoto, contro i denunciati limiti filosofici del socialismo tra Ottocento e Novecento. Nei Quaderni il giudizio è netto: la superstizione del progresso scientifico ha seminato illusioni e concezioni talmente ridicole ed infantili da «nobilitare la superstizione religiosa», ha fatto nascere l’attesa verso un nuovo messia che avrebbe realizzato sulla terra il «paese di Cuccagna» senza l’intervento della fatica umana ma solo per opera delle forze della natura e dei meccanismi del progresso resi sempre più perfezionati. Questa infatuazione puerile per le scienze in realtà nascondeva la più grande ignoranza sui fatti scientifici, sulla specializzazione dei suoi rami disciplinari, e dunque finiva per caricare di attese il mito del progresso scientifico trasformato in una «superiore stregoneria». Il determinismo fatalistico e meccanicistico è caratteristico di una fase ancora contraddistinta dalla subalternità di determinati gruppi sociali, costituisce una sorta di «aroma ideologico immediato», una sorta di eccitante o religione necessitata appunto dal carattere subalterno del gruppo sociale. La concezione meccanicistica è per Gramsci «la religione dei subalterni». Nel marxismo la scissione tra teoria e prassi corrisponde alla separazione tra intellettuali-dirigenti e masse, cioè ad una fase in cui l’iniziativa ancora non è nella lotta, e il determinismo, la convinzione nella razionalità della storia, divengono una forza di resistenza morale e coesione. Ma tutto questo cambia nel momento in cui il subalterno diviene dirigente, se prima era una «cosa» ora diviene una «persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché resistente a una volontà estranea, oggi sente di essere responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente». Il determinismo meccanico può essere spiegato come «filosofia ingenua» della massa, tuttavia quando viene innalzato a filosofia dagli intellettuali «diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente e responsabile» . Secondo Gramsci sono proprio i residui di meccanicismo – che portano a considerare la teoria come un «complemento accessorio» della prassi, come «ancella della pratica» – ad aver impedito nel marxismo un pieno sviluppo della questione relativa all’unità tra teoria e prassi.
L’indisponibilità a scendere a patti con le matrici culturali del socialismo positivista costituisce un dato costante dei diversi momenti dell’elaborazione gramsciana; il numero unico de «La Città Futura», interamente scritto da Gramsci nel febbraio del 1917, riconosciuto da gran parte degli studiosi come il punto d’arrivo della sua formazione giovanile, ne è un esempio. In esso Gramsci saluta il dissolvimento del mito socialista della fede cieca in tutto ciò che è accompagnato dall’attributo «scientifico», una superstizione che tende a relegare l’intervento dell’uomo ad un ruolo subalterno e passivo, in virtù del quale il raggiungimento della società modello deve basarsi sui postulati di un positivismo filosofico mistico, nei fatti «aridamente meccanico» e ben poco scientifico. Di questo mito era rimasto per Gramsci un ricordo sbiadito nel riformismo di Claudio Treves definito un «balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall’uomo e dalla volontà».
Il mito pseudoscientifico del positivismo socialista aveva nei confronti della vita lo stesso approccio di chi osserva da lontano una valanga nella sua irresistibile caduta: vede l’unità, l’effetto, ma non il molteplice di cui l’uomo è la sintesi. Dunque, la débâcle della scienza nel socialismo, o per meglio dire del suo mito, ha per Gramsci il significato di un profondo rinnovamento che porta il proletariato a riacquistare la coscienza del suo ruolo non più schiacciato dal peso di leggi naturali infrangibili. «Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo» .
Ampiamente rappresentativo di questo percorso di definizione teorica sono alcuni altri articoli come il noto La rivoluzione contro il «Capitale» e soprattutto l’articolo immediatamente successivo, intitolato La critica critica, nel quale Gramsci risponde alle accuse di volontarismo che gli vengono mosse dal versante riformista. Claudio Treves in particolare, in un articolo su «Critica Sociale», aveva denunciato «la spaventosa incultura della nuova generazione socialista italiana», colpevole di aver sostituito il volontarismo al determinismo. A Treves, Gramsci risponde che «la nuova generazione», leggendo è studiando pubblicazioni scritte in Europa dopo la stagione d’oro del positivismo, ha preso definitivamente coscienza del fatto che «la stelirizzazione operata dai socialisti positivisti» sull’opera di Karl Marx, non solo non si è rivelata una grande conquista di cultura, ma non si è neanche accompagnata a grandi conquiste nella realtà. Treves al posto dell’uomo individuale realmente esistente pone il determinismo e riduce il pensiero di Marx «a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini», rende il marxismo una dottrina dell’inerzia del proletariato.
Gramsci rivendica «alla nuova generazione» la volontà di ritornare alla genuina dottrina di Marx, «per la quale l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico», e per la quale «i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro» .
Le deformazioni operate sull’opera di Marx dal parte del marxismo ufficiale portavano la grave responsabilità di averne mortificato la vitalità, di aver trasformato il senso più profondo del materialismo storico in «parabole» scandite da imperativi categorici ed indiscutibili al di fuori da qualsiasi categoria di spazio e tempo. Per Gramsci Marx non era né un messia né un profeta, bensì uno storico e in ragione di ciò il marxismo andava epurato da tutte le successive incrostazioni metafisiche e ricollocato nella sua giusta dimensione, per coglierne il valore generale e trarne un metodo, questo sì scientifico, di valutazione storica. Prima di Marx – annota Gramsci – «la storia era solo dominio delle idee. L’uomo era considerato come spirito, come coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa concezione: le idee messe in valore erano spesso arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano aneddotica, non storia. Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. (…) è inutile l’avverbio marxisticamente, e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente… aggettivo e avverbio logori come monete passate per troppe mani» .
Tutto questo aveva una conseguenza fondamentale nella svalutazione dell’intervento attivo e cosciente delle grandi masse popolari, nell’attribuzione ad esse di un ruolo subordinato nei confronti delle contraddizioni immanenti alle leggi dell’economia capitalistica, quindi verso la capacità dei dirigenti politici del movimento operaio di saperle leggere. In questa svalutazione risiedono le premesse del fallimento della stagione rivoluzionaria del biennio rosso ed insieme della reazione delle classi dominanti che gli ha fatto seguito.
Quando, in una fase di «crisi organica», «il vecchio muore e il nuovo non può nascere», può esserci inettitudine non solo nella classe dirigente al potere, ma anche in quella che si pone, o dovrebbe porsi, come la sua negazione: nonostante la crisi di autorità del regime liberale nel dopoguerra. La diffusione del marxismo in Italia non andò oltre un certo grado di sviluppo e il partito del proletariato si mostrò incapace di assumere un qualsiasi ruolo positivo cadendo vittima della sua inerzia. Gramsci trova la rappresentazione esemplare di questa «crisi organica» nel discorso tenuto in Parlamento da Claudio Treves il 30 marzo 1920: secondo Treves la «crisi del regime» è dovuta al fatto che esso non può più imporre il suo ordine alle masse e queste contemporaneamente non possono ancora imporre il loro, perché la rivoluzione non è un qualcosa che si fa in un dato momento ma è come un lento processo naturale di erosione che si svolge in uno stato febbrile di irrequietudine delle masse. Per Treves l’espiazione della borghesia per le sue colpe, consiste nel fatto che l’agonia degli ordinamenti economici e politici esistenti non può essere accorciata da una rivoluzione immediata, ma deve passare attraverso una via crucis lunga e penosa destinata a durare anni. Dietro a questa rappresentazione apocalittica di Treves si nascondeva per Gramsci la paura di assumere una qualche responsabilità concreta e con essa la mancanza di un qualsiasi legame del partito con le masse, l’incapacità a comprenderne i bisogni fondamentali, le aspirazioni, le energie latenti:
C’era una grandezza sacerdotale in questo discorso, uno stridore di maledizioni che dovevano impietrire di spavento e invece furono una grande consolazione, perché indicavano che il becchino non era ancora pronto e Lazzaro poteva risorgere .

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Recensione a “Antonio Gramsci. L’uomo filosofo”. L’ultimo libro di Gianni Fresu

Pubblicato su “Marxismo Oggi” il 4 settembre 2019


di Gabriele Repaci

Antonio Gramsci (1891 – 1937) è stato uno dei filosofi italiani più importanti del Novecento. La sua fama ha ormai superato i confini del nostro paese per estendersi non solo all’Europa, ma anche all’Asia, all’America Latina, al Nordamerica e persino al mondo arabo e all’Africa. E questo non solo perchè egli è stato uno dei più originali pensatori marxisti di tutti i tempi, nonché una delle più eccellenti vittime della repressione del regime fascista, ma perchè Gramsci è stato un genio del pensiero politico al pari di Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli e Carl von Clausewitz.

Egli comprese, più di ogni altro, che il potere si conquista e si mantiene solo attraverso una forte e radicata egemonia all’interno della società civile. Tuttavia, all’interno della vasta letteratura gramsciana, anche in quella di impronta marxista, vi è una tendenza a contrapporre il pensiero di Gramsci a quello di Lenin. Secondo tale interpretazione il rivoluzionario russo viene presentato quale massimo esponente di quella «guerra manovrata» volta alla presa diretta del potere da parte dei “rivoluzionari di professione”, a cui Gramsci avrebbe contrapposto la «guerra di posizione», diretta alla conquista delle «casematte», ossia l’insieme delle istituzioni della società civile. Il merito del libro di Gianni Fresu, professore di Filosofia politica alla Universidade de Uberlândiandia (MG Brasil), nonché dottore di ricerca in Filosofia all’Università degli studi “Carlo Bo” di Urbino, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Aipsa Edizioni, Cagliari, 2019, p. 402, con un importante prefazione di Stefano G. Azzarà, è quello di mettere in luce la sostanziale continuità tra il pensiero gramsciano e la tradizione marxista e leninista. L’autore infatti mette giustamente in evidenza come nelle note relative al passaggio dalla «guerra manovrata» alla «guerra di posizione» del Quaderno 7, l’intellettuale sardo attribuisca proprio a Lenin il merito di aver compreso la complessità degli aspetti di dominio delle società occidentali capitalisticamente avanzate, indicando per primo alle classi subalterne il compito della conquista egemonica. Nel Quaderno 11, Gramsci inoltre ricorda come nel 1921, fu proprio il leader bolscevico ad aver sottolineato l’incapacità di tradurre nelle lingue europee la lingua russa, ossia di dare contenuto nazionale ai valori universali, scaturiti dalle condizioni eminentemente nazionali, della Rivoluzione d’Ottobre. Attraverso lo sviluppo delle forze produttive e l’evoluzione della società in senso democratico e burocratico, anche per Lenin, si ampliavano e divenivano sempre più sofisticati i sistemi dell’apparato egemonico e di dominio. Secondo Gramsci – spiega Fresu – uno dei temi più caratteristici della teoria della rivoluzione in Lenin è l’esigenza di “tradurre” nazionalmente i principi del materialismo storico, ossia rigettare le affermazioni superficiali sul capitalismo e la rivoluzione in generale, per costruire una nuova teoria della trasformazione a partire dalle concrete condizioni di ciascuna formazione economico sociale. Per Gramsci Lenin era stato capace di intuire questo fatto, ma non ebbe tempo di elaborarlo più accuratamente, anche perchè secondo il filosofo sardo avrebbe potuto farlo solo sul piano teorico, mentre «il compito era essenzialmente nazionale», vale a dire che spettava ai partiti comunisti dei paesi occidentali operare una profonda ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza: «In Oriente – scrive Gramsci in un celebre passo dei Quaderni – lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale». È bene precisare come fa giustamente notare l’autore del volume, che in Gramsci i termini Oriente ed Occidente non riguardano semplicemente realtà geografiche differenti. «Nella definizione di Gramsci – scrive Fresu a pagina 256 del volume – il concetto di Occidente riguarda essenzialmente le realtà caratterizzate da un elevato sviluppo delle forze produttive e degli apparati egemonici, mentre quello di Oriente si riferisce a realtà caratterizzate da società civili ancora “primordiali” e “gelatinose” nelle quali il potere si regge essenzialmente per mezzo di rapporti di dominio propri della società politica». L’incomprensione della natura dello Stato in Occidente, secondo Gramsci, portava ad errori madornali perchè lo si riconduceva semplicemente all’apparato coercitivo mentre per Stato non dovrebbe intendersi solo l’apparato governativo ma anche l’apparato privato di egemonia e società civile che costituisce il luogo di formazione e radicamento dell’«egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società». Più concretamente, l’idea concerne la «struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale» dell’egemonia «intellettuale e morale»: case editrici, giornali e riviste, scuole e biblioteche, circoli e «clubs di vario genere» e ancora «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente e indirettamente» comprese l’architettura, l’urbanistica e la toponomastica stradale. Per questo Gramsci definiva la «società civile» anche «contenuto etico dello stato». Per Gramsci, lo studio della società civile diventava essenziale nell’ottica di realizzare un’egemonia che avrebbe reso possibile il superamento del capitalismo. La «guerra manovrata», adatta a società come quella russa contraddistinta da un limitato sviluppo delle forze produttive e quindi anche degli apparati egemonici delle classi dominanti, non poteva che essere causa di disfatta, e doveva essere quindi sostituita da una lunga «guerra di posizione», diretta alla conquista dell’insieme delle istituzioni della società civile.

Questo compito storico richiedeva l’impegno degli intellettuali, che dovevano dedicarsi a promuovere il cambiamento sociale e la rivoluzione, creando «un blocco di forze sociali per condurre uno scontro contro l’egemonia della borghesia, in modo da stabilire l’egemonia del proletariato».

Il concetto di «blocco storico» ha dunque un’importanza centrale in Gramsci. Gli intellettuali, «organizzatori dell’egemonia» avevano infatti il compito storico di realizzare l’alleanza necessaria al rovesciamento dello Stato borghese e di educare il proletariato, in modo da renderlo consapevole della sua missione storica.

Si può perciò dire che Gramsci giunge a negare, insieme ad una strategia universalmente valida, anche un modello universale di rivoluzione. Si può dire che egli apra la strada ad affermare la originalità dei processi rivoluzionari nazionali.

Nel dopoguerra Palmiro Togliatti, subentrato a Gramsci come segretario del Partito Comunista, fu il primo a tentare di tradurre in azione concreta le indicazioni gramsciane elaborando la sua concezione della «democrazia progressiva» come forma di transizione al socialismo. Si trattava dell’ipotesi di un regime democratico repubblicano che, grazie all’articolazione dialettica tra gli organismi tradizionali di rappresentanza (parlamenti ecc.) e i nuovi istituti di democrazia diretta (consigli di fabbrica, di quartiere, ecc.), permetteva un avanzamento progressivo nel senso di profonde riforme di struttura, con la conquista permanente di posizioni in una battaglia di lungo respiro verso il socialismo.
Nella formulazione del Migliore, pertanto, la democrazia politica perdeva il suo carattere di tappa da raggiungere per poi essere abbandonata al momento dell’”assalto al potere”, nell’atteso “grande giorno”, per divenire un insieme di conquiste da conservare ed elevare a livello superiore – ossia per essere dialetticamente superate – nella democrazia socialista.
Questo processo non cessò con Togliatti; basti pensare, ad esempio, alle riflessioni di Pietro Ingrao, svolte soprattutto negli anni settanta, sulla “democrazia di massa”, come integrazione di democrazia di base e di democrazia rappresentativa, e sulla necessità di articolare egemonia e pluralismo nella lotta per il socialismo e nella costruzione della società socialista.

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Processate Gramsci!

Fonte: https://giannifresu.it/2012/02/processate-gramsci-di-gianni-fresu/ Autore: Gianni Fresu

Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
1)Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Torgliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio. Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate recetemente: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino, 2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti per «La Repubblica». Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita costruzione priva di basi, condita però da una fervida e interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico. Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali» . Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale»[1]. In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra molti gramsciologi di professione è stato epurare l’opera di Gramsci dai legami con l’esperienza del leninismo e della III Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia[2]. Lenin non è un rivoluzionario idealista scontratosi con l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia, «la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica», e questo è forse il boccone più amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.
Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale. Se Lenin è per Gramsci il protagonista di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società, da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di «storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»[3] , al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale.
A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:
esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante [4] .
Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un «fronte culturale», a fianco di quelli meramente economici e politici.
La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico[5].
Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà[6] .
Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la formidabile articolazione fortificata della società liberale, i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle classi subalterne:
Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[7] .
Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene conto. Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione, mentre qualche parola è giusto spenderla per le «disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche un tantino di pudore:
Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato [8].
Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo, Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative dei committenti:
Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”. Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d’origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l’eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora[9].
Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa i comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini» del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai più elementari diritti del popolo palestinese da esso violentemente calpestati (altro che «l’elogio del cazzotto»!). Saviano accusa gli «extraparlamentari» di avere la «verità unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea possibile di libertà», al contrario per noi è lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del «fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda». Esso «indica l’arrogante uso di una parola (democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che esprime; e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato politico»[10] . È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre i comunisti sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono, comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto! “Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni della miglior produzione del Comitato per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra, è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio delle nazioni ricche su quelle povere. Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon, «i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione»[11] . Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto (autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo. Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale [12] rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci. Nella sua banale brutalità, l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non ci riusciranno nemmeno adesso.

29 febbraio 2012


note

[1] E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48

[2] Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.

[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977pag. 1302.

[4] Ivi, pag. 1319.

[5] Ivi, pp. 1249-1250.

[6] Ivi, pp. 1231, 1232.

[7] Ivi, pag. 333.

[8] R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28 febbraio 2012.

[9] Ibid.

[10] L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pag. 17.

[11] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari, 1998, pag. 55.

[12] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.

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