La rivoluzione femminile
dal Discorso alla Conferenza femminile del Pci, marzo 1984
Una cosa è certa: che in Occidente la rivoluzione potrà esserci solo se essa sarà anche rivoluzione femminile, che senza rivoluzione femminile non ci sarà alcuna reale rivoluzione. E ciò per ragioni sia quantitative che qualitative. Di un’altra cosa siamo inoltre convinti: che per le donne vale quello che diciamo per il proletariato, e cioè che liberando se stesse, contribuiscono a liberare tutta l’umanità, e quindi anche i maschi.
Oggi, nel momento in cui le donne hanno portato avanti il tema della liberazione che comprende – ma supera quello della emancipazione, i comunisti conseguenti, in quanto rivoluzionari – e perciò fautori della fine di ogni forma di oppressione – devono superare quegli orientamenti culturali, quegli atteggiamenti mentali e pratici, quelle abitudini che sono proprie di una società e di una cultura (e quindi anche di un modo di fare politica) costruite secondo l’impronta maschilista, cioè in nome di una pretesa supremazia dell’uomo. Sta qui, mi pare, la radice vera – che non è di tipo naturalistico (o biologico), ma storica, materiale, culturale e ideologica – della permanenza anche fra di noi di un modello maschile di dirigente.
Una cosa è certa: che in Occidente la rivoluzione potrà esserci solo se essa sarà anche rivoluzione femminile, che senza rivoluzione femminile non ci sarà alcuna reale rivoluzione. E ciò per ragioni sia quantitative che qualitative. Di un’altra cosa siamo inoltre convinti: che per le donne vale quello che diciamo per il proletariato, e cioè che liberando se stesse, contribuiscono a liberare tutta l’umanità, e quindi anche i maschi.
Oggi, nel momento in cui le donne hanno portato avanti il tema della liberazione che comprende – ma supera quello della emancipazione, i comunisti conseguenti, in quanto rivoluzionari – e perciò fautori della fine di ogni forma di oppressione – devono superare quegli orientamenti culturali, quegli atteggiamenti mentali e pratici, quelle abitudini che sono proprie di una società e di una cultura (e quindi anche di un modo di fare politica) costruite secondo l’impronta maschilista, cioè in nome di una pretesa supremazia dell’uomo. Sta qui, mi pare, la radice vera – che non è di tipo naturalistico (o biologico), ma storica, materiale, culturale e ideologica – della permanenza anche fra di noi di un modello maschile di dirigente.
Le compagne avvertono che, pur in un quadro di partito che presenta differenze notevoli tra organizzazione e organizzazione, tra dirigenti e dirigenti, questo salto non è stato ancora compiuto in modo adeguato e generalizzato e quindi esse, giustamente, mostrano disagio, rivolgono critiche. Evidentemente hanno fondati motivi per farlo.
Le difficoltà, le insufficienze, le resistenze che le compagne incontrano nel partito hanno una spiegazione: antico e greve è il bagaglio che ingombra tanti di noi e di esso non ci si libera di un colpo. Ci vuole una fatica; appunto perché c’è il maschilismo. Non so se coloro che parlano, forse un po’ miticamente, del clima che esisteva nelle nostre file, nel periodo della costruzione del partito nuovo (la grande, innovatrice indicazione che venne da Togliatti nel 1944), sanno che per lunghi anni una gran parte di compagni, o almeno molti di noi (non abbiamo mai fatto un referendum interno; forse era la maggioranza) è rimasta ostile e critica alla decisione di estendere il diritto di voto alle donne.
Di questo retaggio in parte ci si è liberati, in parte ci si deve ancora liberare perché, come appunto ho detto, c’è il maschilismo che ha fatto sl che, per lungo tempo, la stessa massa delle donne tardò a battersi per l’emancipazione e che solo da pochi anni è venuto avanti fra le donne l’obiettivo della liberazione: figuratevi fra i maschi!