berlinguer1975

Dalla questione morale all'austerità, dal compromesso storico allo strappo con Mosca, dai giovani alle donne, i "pensieri lunghi" di Berlinguer riescono a incanalare la forza del sogno in un programma politico e sociale concreto e per nulla utopistico.
In un tempo che ha progressivamente perso punti di riferimento ideali e la politica si è spesso ridotta a slogan, il pensiero di Enrico Berlinguer mostra ancora l'anima e il valore di un progetto di società diversa.

Il Potere Mafioso e l’indipendenza della magistratura

Discorso alla Cameraagosto 1983

La questione più grave è oggi quella della mafia e della camorra. Nel potere mafioso sembra essersi costituita una vera e propria struttura centrale di comando, che è crimina­le, finanziaria, ma anche politica.

Per debellarla, occorre che il Governo decida presto di concentrare uno sforzo straordi­nario e duraturo di uomini e di mezzi nelle zone più colpite. Nei riferimenti contenuti nel programma su questo tema non c’è stato il minimo accenno al problema centrale che po­ne la crescita del potere mafioso, della sua ferocia, della sua impunità: il problema cioè delle sue radici e dei suoi legami con istituzioni, partiti e settori della pubblica amministra­zione.

Le misure tecniche e organizzative, pure indispensa­bili, per rendere più efficace l’opera della magistratura, dei carabinieri, della polizia, della guardia di finanza, non rag­giungeranno risultati sostanziali se i partiti e il governo stes­so non si impegneranno a fondo a recidere quei legami, a estirpare quelle radici.

Contro la mafia e contro la camorra, come contro il terrorismo, occorre suscitare una grande e nazionale mobilitazione di massa, rinsaldare il rapporto tra po­polo e istituzioni, per dare fiducia e sostegno agli uomini che proprio in questo momento si stanno battendo con tena­cia e coraggio nonostante la grave carenza di mezzi, e perché soprattutto non sia reso vano il sacrificio di coloro che han­no perso la vita in questa lotta: da Mattarella a Dalla Chie­sa, a Rocco Chinnici, al nostro compagno Pio La Torre, a tanti e tanti altri. [...]Oscura e preoccupante è l’affermazione che propone una visione unitaria dell’ufficio del pubblico ministero. Che cosa significa? Sorge il sospetto che si pensi a una struttura piramidale, che faccia capo al procuratore generale presso la Corte di cassazione, come accade ad esempio in Bulgaria. Andare su questa strada significherebbe puntare al controllo politico del pubblico ministero.


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La politica come tensione verso l’avvenire

da Critica Marxista, aprile 1981

Vi sono, certamente, pericoli di regressione, ma non tutto, certamente, è regressivo. Nella riproposizione dei problemi dell’individuo, per esempio, o nel riemergere di una complessa tematica etico-sociale, vi è anche il richiamo a questioni che non possono trovare risposta semplicemente attraverso la trasformazione delle strutture economiche o degli ordinamenti politici. Ricordo in proposito – anche per­ché, talvolta, sembriamo dimenticarcene – che proprio nel riferimento alla specificità di questi problemi sta una delle ragioni della nostra critica alle riduzioni economicistiche dell’analisi marxista.

Lo abbiamo sottolineato anche nelle tesi dell’ultimo Congresso, quando abbiamo scritto che nella nostra concezione «la trasformazione delle strutture è condizione basila­re, ma che da sola non assicura i complessivi valori del socialismo e della libertà, né risolve tutti i problemi dell’uomo, né esaurisce le molteplici dimensioni dell’impegno umano».

Certo, è un errore che può essere molto pericoloso quel­lo di credere o far credere che la politica o il partito possano costituire una risposta a tutti i problemi dell’uomo, o che sia loro compito creare «1′uomo nuovo»: abbiamo esplicitamen­te respinto ogni concezione mitologica e totalizzante e anche la concezione del partito come «prefigurazione» della nuova società.

Ma errore non meno grave – lo ripeto – sarebbe ap­piattire l’azione politica sui problemi dell’immediato, sulla pratica del piccolo cabotaggio, sulla routine del giorno per giorno: se si toglie all’impegno politico una proiezione e una tensione verso l’avvenire, se lo si riduce ai giochi di potere, a iniziative di corto respiro, a diplomatismi, a polemiche o a trattative e intese tra gli esponenti dei partiti, allora è evi­dente che si contribuisce ad aggravare una crisi di sfiducia e di disorientamento che ha già dimensioni allarmanti.

Al di là di questo ragionamento di carattere generale, occorre però vedere quali limiti di una certa concezione del­la politica siano messi in luce da questo spostamento di inte­resse verso il terreno etico o quello sociale. Mi pare chiaro, per esempio, che c’è un problema che subito viene in evi­denza: è la crisi di una impostazione dirigistica e centralisti­ca, che negli ultimi anni è apparsa in crescente difficoltà, sia nelle versioni statalistiche dei paesi di indirizzo socialista, sia nelle versioni programmatorie delle socialdemocrazie oc­cidentali.

Da destra si cerca di rispondere – come si è vi­sto – con il rilancio di una ideologia liberal-liberista. Ma ri­fiutare questa ultima posizione non significa però nasconder­si i problemi che si pongono alla sinistra: fra questi problemi vi è, certamente, quello di una nuova articolazione del rap­porto Stato-individuo-società, nonché quello di approfondire, anche alla luce delle differenti esperienze che a questo riguardo si sono compiute e si compiono, che cosa possano essere esperienze di gestione sociale che non siano impernia­te su un accentramento statalistico, come trovare nuovi rap­porti tra programmazione e mercato. [...]


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Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile

di Enrico Berlinguer12 ottobre 1973, Rinascita

Abbiamo constatato che la via democratica non è né rettilinea né indolore. Più in generale il cammino del movimento operaio quali che siano le forme di lotta, non è stato mai né può essere una ascesa ininterrotta. Ci sono sempre alti e bassi, fasi di avanzata cui seguono fasi in cui il compito è di consolidare le conquiste raggiunte, e anche fasi in cui bisogna saper compiere una ritirata per evitare la disfatta, per raccogliere le forze e per preparare le condizioni di una ripresa del cammino in avanti. Questo vale sia quando il movimento operaio combatte stando all’opposizione sia quando esso conquista il potere o va al governo.Ha scritto Lenin: «Bisogna comprendere – e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza – che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata». Lenin stesso, che è stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti del consolidamento e della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata. Due esempi rivelatori di queste geniali capacità di lenin furono il compromesso con l’imperialismo tedesco sancito con la pace di Brest Litovsk, e il compromesso con forze capitalistiche interne che caratterizzò quell’indirizzo che va sotto il nome di Nep (Nuova Politica Economica). Né va dimenticato che Lenin non esitò a compiere tali scelte andando contro corrente. Queste due grandi operazioni rivoluzionarie, che contribuirono in modo decisivo a salvare il potere sovietico e a garantirgli l’avvenire, vennero attuate in condizioni storiche irripetibili, ma il loro insegnamento di lungimiranza e sapienza tattica rimane integro.

L’obiettivo di una forza rivoluzionaria, che è quello di trasformare concretamente i dati di una determinata realtà storica e sociale, non è raggiungibile fondandosi sul puro volontarismo e sulle spinte spontanee di classe dei settori più combattivi delle masse lavoratrici, ma muovendo sempre dalla visione del possibile, unendo la combattività e la risolutezza alla prudenza e alla capacità di manovra. Il punto di partenza della strategia e della tattica del movimento rivoluzionario è la esatta individuazione dello stato dei rapporti di forza esistenti in ogni momento e, più in generale, la comprensione del quadro complessivo della situazione internazionale e interna in tutti i suoi aspetti, non isolando mai unilateralmente questo o quello elemento.

La via democratica al socialismo è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime. Quello che è certo è che la generale trasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia, ha bisogno, in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso.

La forza si deve esprimere nella incessante vigilanza, nella combattività delle masse lavoratrici, nella determinazione a rintuzzare tempestivamente – ci si trovi al governo o all’opposizione – le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale. Consapevoli di questa necessità imprescindibile, noi abbiamo messo sempre in guardia le masse lavoratrici e popolari, e continueremo a farlo, contro ogni forma di illusione o di ingenuità, contro ogni sottovalutazione di propositi aggressivi delle forze di destra. In pari tempo, noi mettiamo in guardia da ogni illusione gli avversari della democrazia. Come ha ribadito il compagno Longo al XIII Congresso, chiunque coltivasse propositi di avventura sappia che il nostro partito saprebbe combattere e vincere su qualunque terreno, chiamando all’unità e alla lotta tutte le forze popolari e democratiche, come abbiamo saputo fare nei momenti più ardui e difficili.

Del “consenso” la profonda trasformazione della società per via democratica ha bisogno in un significato assai preciso: in Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione della grande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, “consenso e forza” si integrano e possono divenire una realtà invincibile.

Tale rapporto tra forza e consenso è del resto necessario quali che siano le forme di lotta adottate, anche se si tratta di quelle più avanzate fino a quelle cruente. Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unità di tutte le forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi il sostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione. Del resto, anche sulla sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lo stesso fascismo non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso alla violenza reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno estesa, soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa ed articolata. Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio della borghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a quelli più raffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali e politiche.

È il problema delle alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per l’affermazione della via democratica. In paesi come l’Italia si deve muovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una stratificazione sociale e una articolazione politica assai complesse.

Lo sviluppo capitalistico italiano ha dato luogo alla formazione di un proletariato consistente. Questa classe che una lunga esperienza di lotte – siamo quasi a un secolo di battaglie proletarie – che l’opera educatrice del movimento socialista che l’influenza decisiva che su di essa esercita da cinquant’anni il partito comunista, hanno reso particolarmente combattiva e matura; questa classe, che è la forza motrice di ogni processo di trasformazione della società, tuttavia rimane pur sempre una minoranza della popolazione del nostro paese e della stessa popolazione lavoratrice. Così è anche, in misura maggiore o minore, in quasi tutti gli altri paesi capitalistici. Tra il proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio», ma di ognuno dei quali in realtà occorre individuare e definire concretamente la precisa collocazione e funzione nella vita sociale, economica e politica e gli orientamenti ideali.

Accanto e spesso intrecciati a questi ceti e categorie intermedie e al proletariato esistono poi nella nostra società strati di popolazione e forze sociali (si tratta, per esempio, di larga parte delle popolazioni del Mezzogiorno e delle isole, delle masse femminili e giovanili, delle forze della scienza, della tecnica, della cultura e dell’arte) che non sono assimilabili, come tali, nella dimensione di «categorie», e che tuttavia hanno una condizione nella società che le accomuna e in una certa misura le unisce, al di là della propria posizione professionale e persino della propria appartenenza a un determinato ceto sociale.

Appare chiarissimo che per l’esito della battaglia democratica che conduciamo per la trasformazione e il rinnovamento della nostra società è determinante dove si situano, in che senso sono orientate e come si muovono queste masse, questi ceti intermedi, questi strati di popolazione. È del tutto evidente, cioè, come sia decisivo per le sorti dello sviluppo democratico e dell’avanzata al socialismo che il peso di tali forze sociali venga a spostarsi o a fianco della classe operaia oppure contro di essa.

Da questa struttura economica e stratificazione sociale dell’Italia noi non abbiamo ricavato soltanto conseguenze che riguardano la nostra politica nella fase attuale, ma abbiamo fissato dei punti fermi che riguardano il posto che hanno nella rivoluzione italiana questioni come quella meridionale, femminile, giovanile, della scuola e della cultura, e la funzione dei ceti intermedi.

A proposito di questi ultimi, nel documento, più impegnativo del nostro partito, che è la Dichiarazione programmatica approvata dall’VIII Congresso (1956) si afferma: «Si stabilisce, oggettivamente, una concordanza di fini fra la classe operaia, che lotta contro i monopoli e per abbattere il capitalismo, non più solo con le masse proletarie e semiproletarie, ma con la massa dei coltivatori diretti nelle campagne e con una parte importante dei ceti medi produttivi nelle città, ciò che consente nuove possibilità per l’allargamento del sistema di alleanze della classe operaia e delle basi di massa per un rinnovamento democratico e socialista.

«La massa del ceto medio è costituita da stratificazioni e gruppi sociali diversi, in relazione alle diverse caratteristiche economiche e sociali e al diverso grado di sviluppo delle diverse zone. Pur essendo quindi necessario un approfondimento differenziato da zona a zona, la possibilità di una alleanza permanente della classe operaia con strati del ceto medio della città e della campagna è determinata da una convergenza di interessi economici e sociali che trae origine dallo sviluppo storico e dalla attuale struttura del capitalismo…

«D’altra parte deve essere chiaro che per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica».

La strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia delle alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno e tutta la situazione politica va indietro, fino anche a rovesciarsi.

Naturalmente, la politica delle alleanze ha il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali. Ma tale ricerca non va concepita e attuata in modo schematico o statico. Occorre, cioè, indicare rivendicazioni e perseguire obiettivi che offrano concretamente a questi strati di popolazione e a queste forze e gruppi sociali una certezza di prospettive che garantiscano in forme nuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolo nella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e più moderno assetto sociale.

A questo scopo diviene necessario lavorare anche per determinare una evoluzione nella stessa mentalità di questi ceti e forze sociali, nel senso di allargare in tutta la popolazione una visione sempre meno individualistica o corporativa e sempre più sociale della difesa degli interessi dei singoli e di quelli della collettività.

Noi non ci limitiamo, dunque, a ricercare e a stabilire convergenze con figure sociali e categorie economiche già definite, ma tendiamo a conquistare e a comprendere in un articolato schieramento di alleanze interi gruppi di popolazione, forze sociali non classificabili come ceti, quali sono, appunto, le donne, i giovani e le ragazze, le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimenti di opinione, e proponiamo obiettivi non soltanto economici e sociali, ma di sviluppo civile, di progresso democratico, di affermazione della dignità della persona, d’espansione delle molteplici libertà dell’uomo. Ecco il modo con cui noi intendiamo e compiamo il lavoro concreto per costruire e preparare le basi, le condizioni e le garanzie di quello che si vuole chiamare un «modello» nuovo di socialismo.

Un grosso problema che ci impegna in sede politica e che deve impegnare di più, in sede teorica, i marxisti e gli studiosi avanzati dell’Italia e dei paesi dell’Occidente, è come far sì che un programma di profonde trasformazioni sociali – che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi – non venga effettuato in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati dei ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione. Ciò, evidentemente, comporta una attenta scelta delle priorità e dei tempi delle trasformazioni sociali e comporta, di conseguenza, l’adoperarsi non solo per evitare un collasso dell’economia ma per garantire anzi, anche nelle fasi critiche di passaggio a nuovi assetti sociali sociali, l’efficienza del processo economico.

Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari; ma è un problema altrettanto fondamentale in un paese come l’Italia, ove una forza grande come la nostra uscita da tempo dal terreno della pura propaganda, cerca, fin da ora, dall’opposizione, con l’arma della pressione di massa e dell’iniziativa politica unitaria, di imporre l’avvio di un programma di trasformazioni sociali.

Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica.

D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico.

Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche.

Ovviamente, l’unità, la forza politica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le loro diverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per mantenere nel paese una crescente pressione per il cambiamento e per determinarlo. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento

Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.

La nostra ostinazione nel proporre questa prospettiva è oggetto di polemiche e di critiche di varia provenienza. Ma la verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e sa indicare un’altra prospettiva valida, capace di far uscire l’Italia dalla crisi in cui è stata gettata dalla politica di divisione delle forze democratiche e popolari, di avviare a soluzione gli immani e laceranti problemi economici, sociali e civili che sono aperti e di garantire l’avvenire democratico della nostra Repubblica.

E del resto, a veder bene, le polemiche e i tentativi di rendere impossibile la prospettiva che noi proponiamo non hanno impedito che essa, invece, si sia affermata e si affermi nella coscienza di sempre più larghe masse popolari e nei loro movimenti reali, come anche, in una certa misura e in vari modi, nella stessa vita politica e nei partiti. Sta qui la comprova che il problema da noi posto diventa ogni giorno più maturo e urgente. E se nessuno è in grado di prospettare una diversa alternativa democratica altrettanto valida e credibile rispetto a quella da noi proposta, ciò è perché tale diversa alternativa, in Italia, non c’è.

La nostra politica di dialogo e di confronto con il mondo cattolico si sviluppa necessariamente su diversi piani e con diversi interlocutori.

Vi è innanzitutto il problema, sul quale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note, posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti con lo Stato e con la società civile. Vi è poi il problema della ricerca di una più ampia comprensione reciproca e di una intesa operante con quei movimenti e tendenze di cattolici che, in numero crescente, si collocano nell’ambito del movimento dei lavoratori e si orientano in senso nettamente anticapitalistico e antiimperialistico.

Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazione di «cristiana» che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico.

“Rinascita” ha pubblicato alcuni mesi or sono una serie di articoli e di saggi nei quali sono stati esaminati e vagliati i vari aspetti della questione della Dc. Rimandiamo a essi il lettore, limitandoci noi, in questa sede, a riproporre il tema nei suoi termini di fondo.

L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la Democrazia cristiana italiana, e anzi tutti i partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasi metafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a divenire sempre o ovunque un partito schierato con la reazione. Ed è davvero risibile che a ciò si riduca, nella sostanza, tutta l’analisi sulla Dc che ci viene data da gente che, con tanta spocchia, cerca di salire in cattedra per impartire a tutti lezione di marxismo.

Naturalmente il nostro giudizio sulla Dc è ugualmente lontano da quello che di essa danno quei suoi dirigenti i quali, rovesciando il contenuto ma mantenendo il medesimo metodo astorico che ora abbiamo criticato, presentano la Dc come un partito che, «per sua natura», sarebbe il garante delle libertà e l’alfiere del progresso democratico. In realtà, entrambi i giudizi che abbiamo ricordato sono privi di effettiva serietà e hanno entrambi un carattere puramente strumentale. Il solo criterio marxista, o che voglia essere anche solo fondato sulla serietà politica, consiste nel considerare la Dc sia nel contesto storico politico in cui è collocata e opera che nella composita realtà sociale e politica che in essa si esprime. Solo in questo modo è possibile mettersi in grado di intervenire e di influire realmente sugli orientamenti e sulla condotta pratica di tale partito.

Noi abbiamo sempre avuto ben presente il legame tra la Democrazia cristiana e i gruppi dominanti della borghesia e il loro peso rilevante, e in certi momenti determinante, sulla politica della Dc. Ma nella Dc e attorno ad essa si raccolgono anche altre forze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche di operai. Anche il peso e le sollecitazioni provenienti dagli interessi e dalle aspirazioni di queste forze sociali si sono fatti sentire in misura più o meno avvertibile nel corso della vita e della politica della Dc e possono essere portati a contare sempre di più.

Oltre a questa varia e contraddittoria composizione sociale della Dc vanno prese in considerazione le sue origini, la sua storia, le sue tradizioni e le differenti tendenze politiche e ideali che si sono agitate e si agitano nel suo interno, da quelle reazionarie a quelle conservatrici e moderate fino a quelle democratiche e anche progressiste. Tutto ciò contribuisce a spiegare come le vicende storiche di questo partito siano state assai tortuose e spesso contrassegnate da atteggiamenti tra loro antitetici. Nato come partito popolare, democratico e laico esso si oppose all’inizio al movimento fascista, passando poi all’appoggio e alla partecipazione al primo governo Mussolini, staccandosene successivamente per giungere, attraverso un faticoso travaglio, alla partecipazione alla lotta clandestina e all’impegno pieno e diretto nella Resistenza, al fianco e in unità con le forze proletarie e popolari. Dopo la liberazione, dopo l’avvento della Repubblica e dopo l’elaborazione della Costituzion

e, frutto di un accordo tra i tre grandi partiti di massa (comunista, socialista e democristiano) fu proprio il partito democristiano – nel clima di divisione in Europa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda – il principale artefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti e con i socialisti, dell’unità sindacale e più in generale dell’intesa fra le forze antifasciste. E fu proprio la Dc a condurre da quel momento una politica di contrapposizione e di scontro frontale con il movimento operaio e popolare di ispirazione comunista e socialista. La sconfitta di questa politica, dovuta alle capacità di combattimento della classe operaia, dei braccianti, dei contadini, dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, e dovuta anche alla tenacia con cui il nostro partito non ha mai deflettuto dalla sua linea unitaria, ha riaperto una prospettiva di avanzata al movimento democratico e al paese e ha creato una situazione nuova anche nella Dc. Essa, infatti,

pur mantenendo l’ispirazione conservatrice e moderata della sua linea, è stata messa nella impossibilità di riportare il paese alla condizione della spaccatura verticale e della contrapposizione frontale. Quando un suo uomo, Tambroni, si avventurò nel tentativo estremo di ripristinare tale condizione, fu travolto rapidamente da un grande moto popolare e unitario e liquidato dal suo stesso partito. Ma c’è di più: quando la Dc, sconfitta in questa sua linea, dette inizio a una manovra di nuovo tipo, con l’esperimento di centro-sinistra per giungere all’isolamento del Pci, essa fallì anche su questo terreno.

Dalla crisi di prospettive determinata dal fallimento di questi diversi tentativi per affermare una linea di divisione nel popolo e nel paese la Dc non è ancora uscita. Essa avverte che è assai difficile e che può essere gravido di avventure fatali per tutti e per se stessa giocare la carta della contrapposizione e dello scontro, ma non è giunta ancora a intraprendere con coerenza una strada opposta. E sta proprio in ciò una delle cause determinanti della crisi che attanaglia il paese.

Che fare? In quale direzione dobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione che abbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della Dc risulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; e risulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia, e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali e interni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dal peso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il Pci, dalla loro forza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicenda più recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle masse popolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista, la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalità della stessa Dc hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destra e hanno creato una situazione in cui la stessa maggioranza di forze interna alla Dc che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, è venuta meno. La Dc ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva del centro-destra.

Tali essendo la realtà della Dc e il punto in cui essa si trova oggi, è chiaro che il compito di un partito come il nostro non può essere che quello di isolare e sconfiggere drasticamente le tendenze che puntano o che possono essere tentate di puntare sulla contrapposizione e sulla spaccatura verticale del paese, o che comunque si ostinano in una posizione di pregiudiziale preclusione ideologica anti-comunista, la quale rappresenta di per sé, in Italia, un incombente pericolo di scissione della nazione. Si tratta, al contrario, di agire perché persino sempre di più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storico e politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze.

Certo, noi per primi comprendiamo che il cammino verso questa prospettiva non è facile né può essere frettoloso. Sappiamo anche bene quali e quante battaglie serrate e incalzanti sarà necessario condurre sui più vari piani, e non solo da parte del nostro partito, con determinazione e con pazienza, per affermare questa prospettiva. Ma non bisogna neppure credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.


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I giovani alle prese con le sfide del 2000

di Enrico Berlinguer18 aprile 1982, Milano

Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell’epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano probleni non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell’umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili. Dobbiamo innanzitutto al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano.

La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica è sotto i nostri occhi, fa già parte delle nostre esistenze e per i giovani di oggi costituisce, ormai, quasi una condizione naturale e scontata. Ma proprio perciò occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrirne il significato e la portata, per cogliere bene quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche. Mai come oggi la conoscenza della costituzione della materia inanimata e vivente è giunta sino ad individuare molti dei meccanismi più remoti del mondo fisico, dei processi chimici, degli svolgimenti biologici. La ricerca pura ha aperto il campo a progressi e a veri e propri salti di qualità nelle applicazioni tecnico-pratiche. Emergono sopra ogni altra, in questi anni, le possibilità offerte dalla elettronica – e poi dalla microelettronica – nel campo delle comunicazioni, delle informazioni, dell’organizzazione del lavoro nella fabbrica e nell’ufficio e nel campo stesso della vita individuale e della vita associata.

Nuove risorse d’energia sono state scoperte ed esse sono tali da poter annullare nel futuro l’incubo della fine delle risorse non riproducibili. Sono stati inventati modi nuovi di trarre energia da risorse riprodotte, a cominciare dall’energia solare.

Anche la disponibilità di altre materie prime e di alimenti può trovare nuove possibilità in ricerche in atto e in altre che potrebbero essere avviate per utilizzare pienamente e razionalmente le risorse del suolo, del sottosuolo, dei mari e degli spazi.

E’ pienamente vero quello che è stato detto nella relazione di Fumagalli, e cioè che, vi sarebbero le condizioni, dal punto di vista delle conoscenze scientifiche e tecniche, per iniziare a passare dal regno della necessità a quello della libertà. Se volessimo davvero fare una gara sui temi di chi abbia avuto storicamente ragione, dovremmo dire che la storia ha dato proprio ragione a chi ha tenuto fede alla speranza indicata dal Manifesto dei comunisti, alla speranza – cioè – che avrebbe potuto venire un tempo in cui sarebbe stato possibile all’uomo di dominare la natura e «l’azione propria dell’uomo» invece di essere da questa sovrastato e soggiogato (Marx).

Ma non vi è soltanto il progresso tecnico-scientifico.

Se noi volgiamo lo sguardo alla storia di questo secolo – che conclude il secondo millennio della forma di incivilimento cui apparteniamo – scorgiamo straordinari progressi nella coscienza dei popoli e delle persone umane che li compongono. Vi è stato, innanzitutto, un risveglio da forme di soggezione secolare, di esclusione, di avvilimento della parte più grande del genere umano. Pensiamo a quello che era all’inizio del secolo la condizione dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina ma anche di tanta parte del proletariato e dei lavoratori nell’Europa e nell’America settentrionale, per avere l’idea del rivolgimento radicale che si è venuto attuando. Un rivolgimento peraltro, che non è stato il portato meccanico delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche. Queste trasformazioni hanno generato condizioni nuove, ma vi sono state guerre, ci sono volute rivoluzioni, lotte, sofferenze e sacrifici inauditi per arrivare là dove siamo arrivati.

Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sopra il risveglio delle coscienze individuali di centinaia di milioni, di miliardi di uomini. La partecipazione alla lotta non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di mutazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo, è innanzitutto quella di tenere, o di rendere, passivi e conformisti le donne e gli uomini, ma innanzitutto le giovani generazioni.

Insieme alle conoscenze generate dalla presenza nel generale moto di innovazione e di lotta, a determinare una modificazione delle coscienze, non mai così estesa e così rapida, è venuto uno straordinario aumento della informazione che, pur dando vita anche a forme nuove e più sofisticate di manipolazione delle coscienze, ha spezzato isolamenti e chiusure talora antichissime e ha determinato per la prima volta nella storia del mondo un autentica contemporaneità degli eventi.

Da tutto questo è derivata anche la possibilità di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne.

Siamo oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministici, all’inizio – un inizio certo contrastato e pieno anche di intime contraddizioni – di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente fatta alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice – che consisteva nel proporre alle donne l’imitazione del modello maschile – tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società, dei modi stessi della sua trasformazione, e della politica.

Siamo dunque di fronte ad un balzo in avanti straordinariamente grande nella storia umana e al dischiudersi di potenzialità sin qui sconosciute o solo vagamente immaginate. Ma guai a non vedere che, nello stesso tempo, si aprono dinnanzi all’umanità potenzialità negative anch’esse mai prima esistite.

Il primo e più drammatico pericolo è costituito dalla possibilità di giungere ad una guerra di distruzione totale. Per quanto rovinose e sterminatrici siano state le guerre del passato, in particolare quelle di questo secolo, mai si era profilata la possibilità di un evento bellico tale da porre fine a ogni forma di sopravvivenza dell’uomo su questa terra.

Contemporaneamente, l’uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L’allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull’esistenza di danni crescenti per le acque – i fiumi, i laghi, i mari – e per l’aria che respiriamo, per l’atmosfera e per la troposfera che circonda la Terra. E’ già vi sono, purtroppo, i segni concreti e pratici di potenzialità distruttive inaudite in processi apparentemente innocui o protetti: qui, a pochi chilometri da Milano vi fu il caso di Seveso, dove la diossina fece deserto; altrove sono stati i difetti di centrali elettro-atomiche e in ogni parte si avvertono le conseguenze sulla natura e sugli uomini dell’inquinamento crescente.

Grava poi sulla umanità l’incubo della insufficienza delle risorse alimentari dinnanzi ad una espansione demografica senza precedenti, mentre immense risorse vengono dissennatamente dilapidate e mentre lo spreco dilaga nei Paesi ricchi. Cresce così il divario tra il Sud e il Nord del mondo: un divario intollerabile per ragioni di giustizia e foriero, se non avviato a essere superato, di esplosioni di imprevedibile portata.

E tuttavia anche nei paesi ricchi, anche negli Stati Uniti, la povertà, quella vecchia e quella nuova, non è stata vinta e la disoccupazione o la inoccupazione, e l’emarginazione, colpiscono una quota crescente di popolazione, innanzitutto di popolazione giovanile. Nei paesi della Comunità europea occidentale e negli Stati Uniti si sfioreranno questo anno i venti milioni di disoccupati. La inoccupazione giovanile è divenuta un fatto endemico e strutturale, con conseguenze umane gravissime: un frutto dovuto cioè non all’andamento del ciclo economico, che può solo ridurlo o aumentarlo di poco, ma alle caratteristiche di processi produttivi e di innovazioni tecnologiche guidati dalla legge del massimo profitto.

Si esercitano sulle nuove generazioni fino dalla prima adolescenza, sollecitazioni crescenti per il consumo, e in particolare per nuovi consumi individuali. Si aumenta costantemente il loro patrimonio di informazione, ma contemporaneamente non si riesce ad assicurare ai giovani un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Di qui nasce una condizione che non è certo più quella, almeno nella maggior parte dei casi, dell’estrema indigenza, (com’era ancora nell’Italia che usciva dal fascismo), ma è sicuramente una condizione di frustrazione profonda, causa non certo unica, ma non ultima di tante forme di sbandamento.

Dinnanzi a minacce e pericoli non mancano e anzi sono ampie e forti le risposte positive tra le vecchie e le nuove generazioni. E tuttavia non si può mancar di vedere le forme molteplici di incattivimento di modelli di violenza, di sopraffazione, di arbitrio, sino alle forme degenerative estreme del terrorismo, della mafia, della camorra e dei regimi repressivi di massa in tanti paesi del mondo.

Vi è anche chi teorizza che fenomeni come quelli del dilagare crescente nel consumo della droga pesante oppure dell’estendersi della criminalità organizzata, sarebbero uno scotto inevitabile per sistemi democratici, dove sono garantite le libertà dei cittadini. Noi non lo crediamo. Noi pensiamo piuttosto che nel presentarsi di questi mali si manifesti non una inevitabile conseguenza dei sistemi democratici, ma piuttosto una loro degenerazione profonda: una degenerazione dovuta alla contraddizione sempre maggiore tra il carattere sociale della produzione e le forme della conduzione economica, tra le motivazioni egoistiche sostenute come molla della società capitalistica e il bisogno crescente di solidarietà e di reciproca comprensione umana, tra il permanere di zone vastissime di vecchia e nuova emarginazione e la sfacciata opulenza, tra le prediche moraleggianti e i pessimi esempi pratici dati proprio da molti di coloro che dovrebbero fornire il buon esempio.

Non è dunque il sistema delle libertà democratiche che determina i guasti e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma la incapacità di saldare libertà, giustizia ed efficienza.

Di fronte a questi problemi che caratterizzano la nostra epoca, sorgono dei quesiti urgenti. Quanti nel mondo – e come – pensano davvero a problemi di questa natura, muovendo da un’analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell’umanità?

E che cosa si può e si deve fare perché prevalgano le alternative positive, quelle che vanno in direzione della difesa della vita e della pace e della affermazione della giustizia nei rapporti tra i popoli e all’interno delle nazioni?

Dobbiamo innanzitutto alla parte più umanamente sensibile del mondo scientifico italiano e internazionale non solo l’avvertenza dei pericoli gravi che l’umanità attraversa, ma anche i primi rilevanti tentativi di indicare ai popoli e agli Stati le possibili risposte.

Ma non sono molti nel mondo i dirigenti politici, dei Governi, dei partiti e di altri organismi sociali e politici che si sono dimostrati capaci di pensare a questi problemi in modo non troppo vincolato da puri e ristretti calcoli di Stato, di partito, di gruppo, di difesa o affermazione di ristretti interessi.

Ciò mi sembra vero particolarmente in Italia. Non c’è bisogno di ripetere per la ennesima volta che noi siamo rispettosi di tutte le forze politiche democratiche e che non vogliamo dare lezioni a nessuno: però non è possibile non avvertire in molti episodi della lotta politica interna alle forze del Governo una ristrettezza di orizzonte e, talora, un precipitare attorno a non nobili contese di interessa di parte, per le quali si infiammano gli animi e si misurano i muscoli e le cosiddette «grinte» (sulle quali ha scritto un bell’articolo il compagno De Martino).

Vi è insomma una preoccupante diminuzione del tasso di saggezza nei reggitori del nostro Paese e, per quanto si vede, nel mondo intero. Conforta, va però detto, che sta crescendo il numero di esponenti politici che cominciano a porsi e a porre alcuni dei problemi che ho ricordato in tutta la loro drammaticità. Basta pensare, per quanto riguarda il problema Nord-Sud, alle analisi e alle denuncie di Fidel Castro e di Willy Brandt.

Vi sono inoltre organismi internazionali, istituzioni e associazioni religiose (la Chiesa cattolica, le altre chiese cristiane) che hanno lanciato allarmi, rivolto moniti e in molti casi promosso iniziative.

Fra le forze che pensano ai massimi problemi cui ho accennato c’è il Partito comunista italiano. Abbiamo molti difetti, ma non quello di sfuggire all’analisi e al confronto con la realtà del mondo di oggi, di non sforzarci di comprenderla in tutta la sua portata e di non cercare di elaborare nostre proposte, di sviluppare iniziative, di stabilire contatti e intese con tutte le forze che possono e devono essere interessate a far marciare le cose nella direzione giusta.

Tutto ciò ha gettato i comunisti italiani in una impresa e in una lotta quanto mai ardua e tale da esporli a incomprensioni e polemiche, tanto da parte di correnti dogmatiche e conservatrici quanto da parte di correnti opportunistiche e di adagiamento. Impresa e lotta ardue, ma piene di fascino.

Non è cosa diversa o separabile da questa nostra ricerca la nostra iniziativa per una concezione e realtà del socialismo, quello che voi giovani comunisti avete chiamato giustamente un “socialismo nuovo”.

L’esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficiente e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall’età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dalla esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute.

Noi riscopriamo proprio così l’esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei procesi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Qunado iniziarono le prime rivoluzioni liberali le Costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come Democrazia e Costituzione erano parole vuote.

Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. E’ del resto del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nella idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli od erronee non elimina il valore di queste esigenze. Non elimina cioè il fatto – già segnalato politicamente da Togliatti nel memoriale di Yalta – che la necessità di forme programmate di intervento pubblico nella economia non può più essere in nessuna parte del mondo negata, neppure nei sistemi capitalistici, così come non si può disconoscere il bisogno di una più ampia giustizia sociale. La discussione sarà ed è su

l rapporto tra programmazione e mercato, tra spinta alla eguaglianza e bisogno di differenze: ma questa è già una discussione che implica l’idea della trasformazione sociale. Ecco perché noi non pensiamo che possa essere definito moderno chi mette in parentesi la parola socialismo oppure dichiara la santa crociata contro di essa. E’ vero perfettamente il contrario: è vero cioè che l’idea socialista e comunista continua ad essere la giovinezza del mondo.

Ciò che si è venuto logorando sono molte delle esperienze concrete che dimostrano i limiti, non solo pratici, di concezioni, di posizioni maturate molto tempo fa, all’inizio del secolo. Per questo il nostro partito si sforza di ammonire contro un uso dogmatico dei maestri del pensiero, e dunque anche dei maestri del pensiero socialista.

Ciò non significa affatto sottovalutare i risultati straordinari che hanno avuto la prima predicazione socialista, e poi il passaggio dal desiderio e dal sogno di una società nuova sino allo studio scientifico, con Marx, della struttura capitalistica della società del suo tempo. E’ da tutto questo che è emersa la prima rivoluzione socialista, quella dell’Ottobre russo, le cui idealità e il cui valore stanno scritti nella storia del nostro tempo. Quella prima rottura innescò un processo storico nuovo, un processo che per grande tempo fu portatore di grandi conquiste e di straordinarie conseguenze nell’aprire una fase nuova di lotte per l’emancipazione nazionale e sociale.

Oggi siamo in una fase nuova e diversa dello sviluppo della lotta per il socialismo. Non da ora, certo, i comunisti italiani hanno considerato superato il mito dei paesi di tipo sovietico, mito che pure si costruì non a caso e che aiutò altre generazioni comuniste a far fronte con onore ai propri doveri, mentre molti altri (anche se non tutti) crollavano. Tuttavia questo processo si è ora completato.

Quei modelli di società e di Stato non solo – e da tempo – li giudichiamo non trasferibili in paesi come il nostro. Si viene rivelando la necessità che anche in quei paesi siano attuate riforme economiche e politiche che invertano i processi di stagnazione e di involuzione in atto in diversi di essi, processi che non possono certo essere arrestati, con misure repressive gravi, come quelle adottate dai militari in Polonia. Noi non pensiamo che si possa giungere a realizzare e a difendere trasformazioni di tipo socialistico nelle società e negli stati senza difficoltà, senza fatiche, senza contrasti e lotte. Ma vi è solo una strada giusta per affrontare e superare ogni ostacolo: appoggiarsi sul consenso e sulla partecipazione della classe operaia, dei lavoratori e del popolo. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l’uomo di oggi chiede siano soddisfatti.

Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica.

Se non si vuole che la giustizia prevalga sull’ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all’ingiustizia, o l’accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte.

Questo non vuol dire, ovviamente, che solo chi sceglie l’obiettivo del socialismo può operare per la giustizia, per la pace, per la salvezza e il progresso dell’umanità. Non è così. Vi è anzi un’altra grande necessità che oggi riprende vigore: quella di un incontro e di una collaborazione tra tutte le forze che, muovendo dalle ispirazioni più diverse, sanno, vogliono, possono farsi interpreti di questi bisogni nuovi degli uomini di oggi, di un incontro e di una collaborazione che riconoscano, rispettino ed esaltino il contributo e i valori di cui ognuno è portatore, in uno sforzo incessante di reciproca comprensione e di comune arricchimento. Vi è qui l’altro dato di fondo, peculiare e insostenibile, della nostra concezione e della nostra politica.

Il problema che dobbiamo porre a noi stessi e a tutti è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l’assurdità – tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica senza porsi l’obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale.

Che cosa possiamo fare, come partito e come Fgci, per soddisfare queste esigenza ormai vitali per gli uomini e le donne che abitano il nostro Paese, il nostro continente e il nostro pianeta, sventando i pericoli di eventi catastrofici e di intollerabili dominazioni reazionarie? Per prima cosa bisogna avere delle idee-forza: la difesa della pace e il disarmo sono una di esse, così come lo è il “nuovo socialismo”, così come lo è il nuovo ordine economico internazionale.

In secondo luogo dovremmo lavorare per prendere e dare consapevolezza piena delle contraddizioni nuove del tempo nostro. Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni.

Si è cominciato, praticamente, a parlarne all’inizio degli anni ’70: prima, e acnora per tutti gli anni ’60, imperava il vacuo ottimiso del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse.

A questo proposito avanzo una proposta concreta da realizzare in un tempo ragionevolmente breve: organizzare, come partito e come Fgci, un Congresso di fururologia, che si svolga sulla base di relazioni e comunicazioni di scienziati e di esponenti delle più varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche, ecc.); e portare poi i risultati delle informazioni, valutazioni e proposte, che saranno fatte in tale Congresso alla conoscenza e alla discussione tra i giovani.

La terza cosa da fare, la più importante, è quella di proseguire nello sforzo già in atto per sviluppare tutti quei movimenti che si fondino sulle contraddizioni aperte, indichino soluzioni possibili, suggeriscano risultati concreti lungo una via di trasformazione e contribuiscano nel tempo stesso a migliorare e arricchire noi stessi nel nostro rapporto con gli altri.

Quando il movimento operaio muoveva i primi passi oltre un secolo fa, erano le minute rivendicazioni economiche che dovevano avere il primo posto. La grande battaglia unificante, che divenne internazionale, fu per le otto ore. Se non si fosse partiti di lì non si sarebbero certo potute costruire le leghe, i sindacati, il partito politico.

Oggi quel problema si ripresenta. E torna prepotentemente di attualità, se si vuole affrontare il tema della disoccupazione nei suoi aspetti strutturali, la esigenza di una grande battaglia internazionale per la riduzione dell’orario di lavoro. E’ stato giusto che questo congresso abbia levato su questo tema una richiesta anche nei confronti dei sindacati.

La piaga della disoccupazione giovanile richiede grandi iniziative anche a livello europeo e una nuova politica nazionale che tenda a modificare la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Ma – dunque – la battaglia per il lavoro chiede anch’essa specificazioni di qualità: riguardanti il tipo di sviluppo che è necessario e utile perseguire. Quanto sarà possibile sostenere una espansione fondata essenzialmente su produzioni, come dicono gli economisti, “mature” e cioè all’avanguardia, sul lavoro sommerso, sul permanere di una dipendenza fortissima nella ricerca e nei brevetti?

Ecco il bisogno economico di misurarsi con la qualità dello sviluppo. Contemporaneamente, si tratta di un bisogno non soltanto economico. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita culturale più ricca e piena, di andare ad una scuola il cui insegnamento sia qualificato; tutto questo viene diventando necessità primaria, come erano una volta, le necessità di sussistenza.

Ecco perché il movimento ecologico, nei suoi differenziati aspetti, la volontà di impegno culturale, lo stesso desiderio di partecipazione attiva al miglioramento della scuola hanno acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo.

Ed ecco perché noi non possiamo pensare di chiamare i giovani alla politica secondo vecchi contenuti e vecchie forme. Come portare la grande maggioranza dei giovani alla consapevoleza piena della realtà e alla possibilità di affrontarla alla luce della ragione. La ideologia della fine delle ideologie è essa stessa una forma di falsa coscienza e cioè una ideologia nel senso marxianamente peggiore della parola. Vi è una pressione forte per un allontanamento di giovani dalla politica.

La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appanaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, i quali hanno l’interesse fondamentale a costruire il proprio futuro e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia.

Non è mai stato facile essere comunisti. L’assassinio di compagni Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono la prova più recente che non è neppure mai finito il tempo in cui bisogna testimoniare persino con il sacrificio estremo la propria fedeltà alle grandi idee per cui tanti dei nostri compagni sono caduti. Ma vi sono oggi difficoltà anche meno aspre e più impalpabili, date dal fatto che i problemi si presentano in forma diversa e più complessa che per il passato, perché le contraddizioni medesime della società tendono ad essere non più solo quantitative ma a riguardare la qualità dello sviluppo, della vita, del modo di esser donne e uomini, del rapporto tra individuo e individuo, tra individuo e società.

Alla crisi delle vecchie forme della politica già corrisponde, se sappiamo vederlo, il nascere di forme nuove di impegno. E queste nuove forme non derivano soltanto dal fatto che molti partiti siano in crisi e altri, compreso il nostro, sentano difficoltà, ma derica dal fatto che avanzano, assieme a questioni nuove, nuove sensibilità.

Vi è, per esempio, un bisogno più grande che per il passato di veder pienamente utilizzato il proprio tempo e il proprio contributo. Non possiamo perciò rammaricarci se tanta attività dei partiti, effettivamente ripetitiva, non viene seguita. Ma vi è anche più informazione, più spirito critico, più avvertita vigilanza contro i luoghi comuni, e le frasi fatte. Ecco perché certo vecchio modo di fare politica oramai respinge nel mentre si sviluppa una spinta grande all’associazionismo, a forme nuove di aggregazione, a nuovi interessi. Nella ripresa di tante forme di associazionismo cattolico non vi è soltanto, il bisogno di certezze che una fede può dare, vi è anche un grande e attivo impegno operativo intorno a tante cause positive. Le Chiese sospingono all’impegno nella società e da ciò deriva una religiosità che non è fuga dal mondo, ma opere e fatti.

Di qui sono venuti e possono venire contributi di notevole rilievo: innanzitutto al movimento per la pace. Talora, ciò si accompagna a spinte integraliste ma, quali che ne siano le motivazioni, bisogna essere attenti alle finalità concrete che vengono perseguite e vedere quali sono i possibili obiettivi consumi. Occorre non confondere mai la necessaria lotta contro il sistema di potere democristiano – sistema di potere che, con buona pace dell’attuale segretario della Dc, continua ad essere una pesante realtà e non una invenzione dei comunisti – e la necessità di intendere la complessità delle spinte presenti nell’area cattolica.

Noi non ci lasceremo impressionare dalla campagna pretestuosa in base alla quale ogni attenzione nostra verso la realtà cattolica viene presentata come ricerca di una intesa tra Dc e Pci. Si tratta di propaganda. Al tempo della solidarietà nazionale noi fummo sempre con i compagni socialisti dapprima nell’astensionismo, poi nel breve periodo della maggioranza. Non siamo certamente noi che abiamo praticato la linea della divisione a sinistra e della intesa separata con la Dc.

Abbiamo dichiarato e ripetiamo, comunque, che quell’esperienza politica è per noi conclusa.

La nostra prospettiva è quella di un’alternativa democrativa al sistema di potere dominato dalla Dc. E’ ed è in questo quadro che si colloca la nostra ricerca di uno sviluppo del rapporto unitario prima di tutto con il Psi.

Ma guai se, per timore di una propaganda malevola, noi dismettessimo la nostra attenzione verso il mondo cattolico. Proprio la piena conquista di una laicità storicamente costruita ci consente questa capacità continua di distinzione: volta a cercare di interpretare, nel campo che è proprio del partito politico, i bisogni del tempo, da chiunque essi vengono espressi. Non ci sfugge, quindi, che viene anche dal campo cattolico un bisogno di fare, di agire che corrisponde alla necessità effettiva di vedere almeno alleviati molti dei problemi assillanti di tanta parte della popolazione. E’ ciò che si chiama il «volontariato». Il volontariato non è soltanto cattolico. Alle radici stesse del movimento operaio c’è il moto della solidarietà reciproca; l’originario costituirsi (prima delle leghe, prima del partito) di associazioni di mutuo aiuto, di reciproco sostegno.

In molte organizzazioni del volontariato, in ogni campo, credenti e non credenti lavorano insieme e anche quando le organizzazioni sono distinte e le aspirazioni ideali diverse, sovente le finalità di solidarietà umana comuni. E abbiamo visto proprio nei giorni scorsi, in una riunione nazionale, quante e quanto valide siano le forze nostre impegnate nelle associazioni volontarie.

Lo sviluppo nuovo e impetuoso di queste antiche e nuove forme di aggregazione ci insegna tante cose: non certo che si può fare a meno delle lotte (fra le quali oggi hanno portata decisiva quella per respingere l’offensiva della Confindustria). Né si può fare a meno dello Stato o della mano pubblica – come qualche teorico, anche di parte cattolica, suggerisce – ma certo che bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, che bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società.

Lo sviluppo dell’associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. «Democrazia» deve congiungersi con efficienza e «libertà», deve divenire responsabilità e liberazione.
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