L’Italia, l’Europa, il socialismo
Intervista a L’unité, settimanale del Partito socialista francese, 24 ottobre 1975
Assemblea Costituente. Seduta del 15 luglio 1947
LI CAUSI. Onorevoli colleghi, non è la prima volta che ci occupiano della Sicilia e credo che non sarà nemmeno l'ultima…
UBERTI. Speriamo che sia l'ultima!
PRESIDENTE. Onorevole Uberti, la prego di non cominciare ad interrompere.
MANCINI. È intolleranza!
LI CAUSI. … ed è un bene; perché il processo dichiarificazione che è in corso, determinato appunto dall'azione delle masse, deve essere condotto fino in fondo, ed è necessario che tutto il paese segua, aiuti, intervenga in questo processo di chiarificazione nella nostra Isola. Se è vero che in Sicilia recentemente, fatto credo unico finora nella storia, è intervenuto in visita ufficiale l'ambasciatore degli Stati Uniti, che ha preso contatto col Governo regionale, ha concesso interviste, fatto delle dichiarazioni, esortato il popolo siciliano a guardarsi dal rinunciare alla libertà individuale; se è vero che l'Isola, ha una particolare importanza strategica, ci rendiamo conto come sia indispensabile che tutto il Paese, posto continuamente in sussulto da campagne di stampa sugli avvenimenti siciliani, in base a notizie deformate, esagerate o minimizzate secondo il punto di vista degli interessi, abbia la conoscenza esatta di quella situazione, chiarisca le responsabilità e soprattutto si renda conto di una situazione che nella sua sostanza è semplicissima, ma che è infinitamente complessa, complicata com'è per collusioni e legami intimi che sussistono, sulla base della struttura sociale della Sicilia, tra vita politica, mafia e banditismo.
Ecco perché, dicevo, non ci deve dispiacere se serenamente noi portiamo il problema della Sicilia dinnanzi all'Assemblea: gli ultimi avvenimenti dolorosissimi, i fatti di Pian della Ginestra e le aggressioni del 22 giugno, hanno commosso l'opinione pubblica mondiale; necessario è perciò che si sappia quali sono le origini di sì efferati delitti, di queste manifestazioni esplosive di un male che non può essere che profondo e non può essere addebitato alla malvagità del singolo, anche se questa malvagità concorre poi nella efferatezza del delitto. Ogni tanto l'opinione pubblica nazionale ed internazionale è turbata o commossa per una di queste esplosioni. Poi, come se tutto finisse, nessuno si preoccupa di andare alle radici del male. Certo, se noi cominciamo con l'affermare che i delitti che avvengono in Sicilia non differiscono da quelli del resto d'Italia, cioè affoghiamo in un unico grigiore di avvenimenti, rinunciamo a priori ad approfondire le origini del male. Ma certi esponenti politici, certa stampa si compiacciono di questo grigiore schermendosi con l'affetto verso la propria regione, con la carità di patria e simili luoghi comuni, cadendo in perfetta contraddizione con i giudizi di altri uomini responsabili, che per essere a capo delle forze di polizia, come chi comanda i carabinieri dell'Isola, esprimono giudizi ben altrimenti concreti e differenziati. Ho qui sotto'occhio un rapporto riservato del Comando della terza Divisione carabinieri del 9 ottobre… Voci dal centro. Ma è riservato!…
LI CAUSI. Sì, ma che c'è di male? Me ne servo lo stesso. E leggo: "Si legge spesso sulla stampa, e lo afferma specialmente quella separatista, che la situazione creata dalla delinquenza in Sicilia non è peggiore di quella esistente in Emilia o in qualche altra regione e si cita, ad esempio, anche il recente movimento dei partigiani, al cui confronto le ribellioni separatiste sarebbero pallida cosa. Tutto ciò non è vero, perché la situazione della pubblica sicurezza dell'Isola è realmente grave, come non lo è mai stata e come non lo è in nessuna regione del Continente, anche per l'abbondanza delle armi automatiche e da guerra di cui dispone ora la delinquenza e di cui usa ed abusa contro le vittime dei suoi disegni e contro la polizia. Basti citare che molti proprietari sono stati costretti a non recarsi più nelle campagne per tema di sequestro o di peggiori conseguenze; che in alcuni Comuni si registrano diecine e diecine di omicidi, qualche esecuzione di massa, numerose sparizioni di persone di cui non si ha più notizia; che i proprietari, oltre alle tasse dovute allo Stato, per salvaguardar le case, le piantagioni, le coltivazioni, pagano "il pizzo" per un cospicuo ammontare alla mafia locale o a qualche gruppo di delinquenti; che la tenebrosa associazione della mafia con minacce e violenze ha molto contribuito alla mancata riuscita dei granai del popolo".
Questo si dice in una relazione del Comando dei carabinieri, ricca di rilievi e considerazioni, dove è spiegato perché ancora non si riesce a far chiaro in questa folta ed intricata matassa e dove si smentisce in pieno la posizione che, a proposito dei recenti luttuosi avvenimenti siciliani, ha assunto il Goverlo col dire: "Mah! La delinquenza in Sicilia non differisce da quella delle altre regioni".
Il 26 giugno di quest'anno, alle porte di Alcamo, avvenne un conflitto fra una banda armata ed un gruppo di carabinieri comandati da un capitano. Ebbene, tutta la stampa, unanime, rileva che nei confronti del capobanda, badate bene, del capo-banda, certo Ferreri -- che per alcuni mesi da quanto risulta dai rapporti ufficiali dell'Ispettore di pubblica sicurezza della Sicilia -- è stato a capo delle bande dell'E.V.I.S., ed è qui descritto col nome di Salvatore d'Alcamo, cioè non è stato identificato, si elencano niente di meno che i seguenti delitti: "Era evaso da un penitenziario dell'Alta Italia e dal 1944 era stato il più influente luogotenente di Giuliano. Aveva preso parte alle aggressioni delle caserme dei carabinieri di Grisi, Bellolampo, Borgetto, Montelepre, Pioppo e Piano dell'Occhio. Aveva un odio particolare per i carabinieri ed aveva partecipato a numerosissimi conflitti, tra cui l'aggressione ad un autocarro, che incendiò e distrusse, ferendo il capitano dell'Arma Rocco Tinnirello. Aveva ucciso il carabiniere Vincenzo Meserendino; aveva tentato di uccidere l'ufficiale Mario Vistrianni, incendiando e distruggendo una camionetta di polizia; aveva ucciso i carabinieri Filippo Marino e Antonio Smeraldo nell'abitato di Montelepre; aveva aggredito, ancora in contrada San Cataldo di Terrasini, autocarri di soldati e carabinieri, uccidendo quattro soldati e ferendo due militi; aveva aggredito la camionetta dell'Ispettorato generale di pubblica sicurezza ferendo il vicebrigadiere Tuzzeo; era colpevole degli omicidi del carabiniere Giovanni Adarni, del carabiniere Sassano e del tentato omicidio dei carabinieri Vella e Gentile; era altresì colpevole dell'aggressione alla macchina del capitano dei carabinieri Pagano di Monreale; aveva organizzato una serie di conflitti con i militi di Montelepre, culminati con il ferimento di alcuni militari e l'uccisione del tenente Felice Testa; aveva pure organizzato l'omicidio del maresciallo dei carabinieri Filippo Scimone ed il tentato omicidio del brigadiere Arcadipane sullo stradale di Sancipirrello, nonché attacchi ad autocarri carichi di soldati e carabinieri con l'uccisione del caporal maggiore Lombardo e del soldato Cinquemani. "Il Ferreri era anche specialista in sequesti di persona, dei quali i più importanti sono quelli di: Virga, Apostolo, Di Lorenzo, Agnello, Ugdulena, Vanella, Collicchia, Arcuri, ecc., ecc. ".
Questa la serie di orrenti misfatti di cui si era reso colpevole il Ferreri. Ebbene, non appena la banda è sterminata e dei cinque componenti rimase vivo solo il Ferreri, la prima cosa che egli dice è: "Salvatemi la vita, perché sono il confidente dell'Ispettore di pubblica sicurezza dottor Messana". Avviene che nel momento in cui l'ufficiale dei carabinieri vuole accertare questo, il bandito gli afferra l'arma e tenta di strappargliela: l'altro si difende e lo fredda. Nella perquisizione presso il padre del Ferreri viene trovato un permesso di armi rilasciato da poco tempo dalla questura di Trapani. Le autorità si informano: com'è possibile che un affiliato alla banda Giuliano abbia un permesso d'armi regolare? Risulterebbe che c'è stato l'intervento dell'Ispettore di pubblica sicurezza per farglielo rilasciare. Che cosa ci conferma nella convinzione della esistenza di questo intervento? Ce lo indica un fatto molto grave. Malgrado ci sia stato il referto di tutto ciò che era stato trovato addosso ai cadaveri, l'Ispettore di pubblica sicurezza manda un suo dipendente a sottrarre il permesso d'armi, e se lo porta a Palermo. Una indagine più profonda potrebbe accertare che anche addosso al principale "Fra Diavolo", cioè a Ferreri (l'Ispettorato di pubblica sicurezza lo definiva addirittura un Giuliano e mezzo) sarebbe stato trovato un documento di identità a nome, niente di meno, di un milite dell'Arma dei carabinieri. C'è di più. Ad Alcamo ci sono testimoni i quali hanno visto, un'ora o due ore prima che il conflitto avvenisse, l'automobile dell'Ispettore di pubblica sicurezza Messana, che accompagnava un altro ufficiale dello stesso ispettorato di pubblica sicurezza, e appreso che il Messana avrebbe avuto un incontro con la banda Ferreri.
Tutto ciò, si sa, circola, è stato riportato dai giornali, e non solo dai giornali comunisti. I giornali comunisti hanno riportato queste voci soltanto dopo che altri giornali dell'Isola avevano pubblicato questi "si dice". Ora, voi certamente vi rendete conto che di fronte a questi fatti l'impressione dell'opinione pubblica siciliana è enorme, e la confusione anche, perché non si capisce più niente. Come è possibile che l'Ispettore di pubblica sicurezza abbia per suo confidente un bandito di questa specie? Noi tutti sappiamo che la polizia ha bisogno di confidenti. Ci sono confidenti e confidenti; ma come si spiega il caso in questione?
La mattina del 22 giugno (la sera, poi, si hanno le aggressioni alle sedi del Partito comunista di Monreale, ecc.) avvenne un colpo di scena sui giornali: si faceva conoscere che gli autori della strage di Pian della Ginestra non erano quelli che erano stati indiziati dal pastore X o dal pastore Y, ma il bandito Giuliano in persona; che l'Ispettore di pubblica sicurezza era in intimi contatti con il luogotenente di Giuliano. Quindi l'autore della strage di Pian della Ginestra sarebbe il bandito Giuliano. Poi, al Giuliano si fa fare un programma (tenete presente che Giuliano ha fatto appena la quinta elementare) che è stato pubblicato ed in cui egli appare come il difensore della moralità, della proprietà, e di tutto quello che c'è di santo nella vita della Sicilia, contro il bolscevismo. È la prima volta che Giuliano, nella sua carriera di bandito, prende apertamente posizione per difendere la Sicilia dal bolscevismo.
Ma c'è di più. Nella zona dove egli è nato e nella zona dove ha trovato maggiori consensi, nel senso che ha arruolato dei banditi durante il periodo più acuto della lotta sociale, cioè il periodo della lotta per l'assegnazione delle terre incolte, Giuliano non ha mai operato contro i proprietari a favore dei contadini o contro i contadini a favore dei proprietari, ma si è mantenuto neutrale. Improvvisamente Giuliano diventa l'esecutore materiale della strage di Pian delle Ginestre, tesi questa carissima all'Ispettore Messana, se è vero che, in mia presenza, il primo maggio alle ore 16, in Prefettura (quando per la prima volta trovammo riuniti il Prefetto, l'Ispettore Messana, il Comandante dei carabinieri, il Segretario generale dell'Alto Commissariato, l'Ispettore generale presso l'Alto Commissariato ed altri ufficiali) è il solo Messana ad avanzare l'ipotesi che a Pian delle Ginestre ci fosse la mano di Giuliano. Ed è lo stesso Messana, attraverso i suoi carabinieri che, quando i pastori di San Giuseppe Jato riconoscono alcuni, che hanno preso parte alla strage di Pian delle Ginestre - e che ancora sono dentro - manda un brigadiere a chiamare la madre di uno di costoro perché confessi che a suo figlio o a lei stessa sono stati dati dei soldi dai comunisti, e in tal modo venga incolpato il tale dei tali, che non c'entra affatto nella strage di Pian delle Ginestre.
C'è di più: in quei giorni, sia l'Ispettore di pubblica sicurezza, sia il Comando dei carabinieri, sia la Questura di Palermo rendono noto (anche attraverso circolare) che Giuliano sta preparando delle aggressioni contro le sedi e gli uomini dei partiti di sinistra. Si soggiunge poi a voce: "Badate che la nostra vita è in pericolo". Ci accorgiamo di trovarci di fronte a tutta un'azione, la quale vorrebbe localizzare l'esplosione e la responsabilità dei misfatti avvenuti in Sicilia, attorno a questo mito evanescente, a questo personaggio che si chiama Giuliano, per dire: "Tutto il resto non c'entra. Che c'entra la mafia? Tutti galantuomini! Che cosa c'entrano i partiti politici? È impensabile che ci possano essere degli uomini nei vari partiti politici che possano essere individuati come responsabili di sì orrendi misfatti". Si cerca di creare intorno a noi una psicosi di paura, aggiungendo che la polizia ci proteggerà, e che sarà fatta tutta un'azione in comune perché Giuliano sia preso. Ma, scusate, perché Giuliano finora non è stato preso?
In un rapporto del Comando dei carabinieri si dice, fra l'altro: "Giuliano ha preso contatto con l'aristocrazia e gli uomini politici, si è dato a dettar legge e a scrivere lettere minacciose, ecc.". Il rapporto continua: "È stato in questi ultimi tempi accertato - siamo alla fine del 1946 - che il bandito Giuliano, certamente a seguito dell'azione intensa svolta sulle montagne dalle squadriglie, si è trasferito con i suoi uomini a Palermo e nei comuni limitrofi, protetto da qualche elemento della mafia, appoggiato di certo da qualche famiglia molto in vista. Non si creda, pertanto, di poter catturare Giuliano con le armi in mano, anche per la vicinanza di quasi tutti gli altri banditi i quali, specie se giovani e arditi, ben provvisti di denaro -- Giuliano dai soli sequestri ha ricavato più di cento milioni -- sono stati notati alla spicciolata qui in Palermo".
Ebbene, queste cose sono state dette a quest'ultima operazione, con i duemila uomini, fra soldati e carabinieri, che sono stati mandati a Montelepre, conferma la giustezza del giudizio espresso dal generale dei carabinieri. Si vuol creare cioè tutta una coreografia allo scopo deliberato di stornare, come dicevo, l'attenzione del pubblico da quella che è la vera situazione e da quello che veramente ci vorrebbe per stroncare questa situazione, per recidere appunto i legami fra questo banditismo, fra una parte della mafia, e quelle famiglie in vista, quelle famiglie aristocratiche che fanno parte di quei partiti ben individuati nelle relazioni ufficiali.
Si ha, in altre parole, questa precisa situazione, che il banditismo politico in Sicilia è diretto proprio dall'ispettore Messana: e l'ispettore di pubblica sicurezza, il quale dovrebbe avere per compito quello di sconfiggere il banditismo -- il suo compito veramente sarebbe quello di socnfiggere il banditismo comune e non già quello politico -- l'Ispettore di pubblica sicurezza, dicevo, diventa invece addirittura il dirigente del banditismo politico.
Ma c'è di più: il Messana non avrebbe dovuto intervenire nella ricerca di esponenti politici indiziati e invece egli è andato sempre in cerca di questi elementi. Quando, nel settembre dello scorso anno, furono uccisi, a bombe a mano, alcuni contadini riuniti nella sede della cooperativa ad Alia per discutere sul problema della divisione delle terre, non si sa perché è intervenuto l'ispettorato di pubblica sicurezza, dopo che la Questura di Palermo aveva operato dei fermi di indiziati, e i fermati vengono rilasciati. Alla vigilia del 2 giugno avviene a Trabia un tipico delitto di mafia; la camionetta dove si suppone che siano i responsabili viene fermata a Misilmeri, alle porte di Palermo: ebbene, nonostante che su quella camionetta si trovassero armi, secondo una prima versione della polizia, i fermati vengono dopo un giorno rilasciati.
Questa impressione non è dunque cervellotica, ma ha un fondamento molto serio e l'onorevole ministro dell'interno lo sa perché sono stato io personalmente ad accompagnare da lui un altro collega che gli ha detto: "Ma come fai a fidarti di Messana, tu che dici di essere un repubblicano sincero? Messana, infatti, non solo ha svolto opera per il trionfo della monarchia prima del 2 giugno, ma ha continuato a complottare contro la Repubblica dopo il 2 giugno, designato come era Ministro degli interni di un restaurando Regno di Sicilia, se Umberto fosse sbarcato a Taormina o in non so quale altro punto della costa siciliana; e bada che io sono un testimone auricolare, uno che ha partecipato a queste trattative, respingendole".
Ma è possibile che il Ministro Scelba si possa fidare di un uomo di cui si presume che conosca anche il passato? Lasciamo stare che Messana è nell'elenco dei criminali di guerra di una nazione vicina; questo può far piacere ad una parte della Camera, la quale pensa: "Va bene, è un massacratore; però, di stranieri!", ma Scelba come può ignorare che Messana ha iniziato la sua carriera facendo massacrare dei contadini siciliani? Il 9 ottobre del 1919, infatti, cadevano a Riesi più di sessanta contadini, di cui tredici morti: trucidati a freddo, sulla piazza, dove si svolgeva un comizio. I vecchi di quest'Aula ricorderanno come in quell'occasione il Ministero Nitti ordinò un'inchiesta mandando sul posto il generale dei carabinieri Densa, mentre la Magistratura iniziò un'inchiesta giudiziaria soprattutto per accertare le cause della morte misteriosa di un tenente di fanteria, che si rifiutò di eseguire l'ordine di far fuoco del Messana, che ne disapprovò apertamente la condotta, e che il giorno dopo fu assassinato.
Questi i precedenti del commendator Messana, noti al ministro dell'Interno. Ci troviamo, come vedete, di fronte ad un uomo che per istinto è contro il popolo, e trova, nei legami con i nemici del popolo, il modo di esercitare la professione di massacratore di contadini. Oggi, sfacciatamente, questo non può farlo, per quanto nel clima creatosi in Sicilia è possibile -- in Sicilia, terra dei "Vespri" -- che i poliziotti di Scelba, ministro siciliano, aggrediscano un pacifico corteo di donne che dimostrano contro il carovita.
Oggi è possibile in Sicilia questo, perché agli interni c'è un ministro siciliano, così come nel 1894 a soffocare nel sangue il movimento dei fasci dei lavoratori fu un altro ministro siciliano, Francesco Crispi. Si è tentato, come nei primi decenni del secolo, di stroncare il movimento contadino, assassinando capilega e segretari di Camere del lavoro; a quest'azione di intimidazione il popolo siciliano risponde con la superba affermazione democratica del 20 aprile; allora l'agraria, la mafia ricorre al terrore di massa e si hanno Pian della Ginestra e le stragi del 22 giugno. Ma l'Ispettore Messana, che ha il compito di proteggere agrari e mafiosi, che è uomo che obbedisce a pressioni di parte, ordisce intrighi politici, suggerisce a Scelba la parola d'ordine che il Ministro fa subito sua: le stragi siciliane sono opera di banditi comuni, e Messana diviene il perno di una situazione infernale: Messana si allea ai banditi di strada. Il popolo siciliano, il popolo italiano tutto, hanno diritto di chiedersi come sia possibile il perdurare di un tale stato di cose.
All'annunzio dell'orrendo crimine di Pian della Ginestra, subito, d'impulso le più alte autorità preposte all'ordine pubblico in Sicilia hanno detto: "Questo è un tipico delitto di mafia; bisogna iniziare un'azione a fondo contro questi assassini"; ma è intervenuto il Ministro Scelba prima alla Costituente, poi in Sicilia; ma credete che sia andato laggiù per disporre l'azione di ricerca e pronta punizione dei veri responsabili? No; è andato solamente per salvare la mafia, per dire: "Niente; questo è banditismo comune; basta con gli arresti di mafiosi e mandanti indiziati". E degli ufficiali dei carabinieri sono venuti da me, piangendo, a dirmi: "Vedete, questi sono i telegrammi di contr'ordine che sospendono le operazioni di polizia che avevamo iniziato".
Ora, il diritto di sospettare che una collusione esista fra banditismo, certi partiti politici e, fino a prova contraria, governo è legittimo e allarma la popolazione siciliana, allarma e commuove giustamente tutto il Paese; è quindi assolutamente necessario uscire da questa situazione e oggi esistono condizioni favorevoli per farlo; c'è il movimento delle masse lavoratrici in Sicilia capace di aiutare questo processo di risanamento nel campo sociale; ci sono i partiti democratici che debbono costringere tutte le forze politiche della Sicilia ad assumere la propria responsabilità, a liberarsi dai legami con la mafia, con questa cancrena, con questo banditismo politico-sociale che continua a vivere di ricatti, di prepotenze, di estorsioni, di omicidi. Oggi esistono queste condizioni: sfruttiamole, poggiamo sul movimento delle masse, poggiamo sui partiti veramente democratici, e su questa azione inseriamo l'azione di polizia che sarebbe confortata da tutta quanta l'opinione pubblica.L'eccidio di Portella non è il primo nella Sicilia dell'immediato dopoguerra, ma appare diverso da ogni altro: per l'elevato numero di morti e feriti, la singolarità del bersaglio, le curiose rispondenze con la politica che sta prevalendo nel governo del paese. Quanto basta, in definitiva, per legittimare il sospetto che dietro quel delitto si celino organi di Stato.
In effetti, dopo un breve indugio sui possibili esecutori e i mandanti dell'eccidio, in alcuni organi di stampa si punta dritto alla politica, corroborati da un certo sentire comune, che via via si rende manifesto, a partire dall'isola. Alberto Jacoviello è sicuro nel titolare un reportage da Montelepre per il "Nuovo Corriere" di Firenze, Giuliano sa tutto e per questo verrà ucciso, riassumendo le proprie convinzioni in questo passaggio: "Giuliano conosce esecutori e mandanti. E qui il gioco diventa grosso. Giuliano comincia a sapere troppe cose. Se lo prendono, parla. Messana, l'ispettore di polizia, non lo prenderà. Oppure lo prenderà in certe condizioni. Morto e con i suoi documenti distrutti, se ne ha".
Il subbuglio suscitato da Portella è comunque discreto e, per certi versi, interiore. Manca quella subitanea e gridata marea di sdegno che è seguita al delitto Matteotti nel 1924, e che ha messo alle strette, sia pure per un solo attimo, lo stesso governo Mussolini. Nondimeno, il risentimento partito da quel pianoro siciliano è destinato a durare, per il succedersi puntuale d'altri delitti, e i riflessi che ne verranno negli ambiti della comunicazione e del costume politico. E fra coloro che, già a caldo degli eventi, si fanno portavoce di quello sdegno spicca il comunista Girolamo Li Causi, uomo di carattere, recante alle spalle oltre quindici anni di carcere fascista.
Il discorso che il dirigente della sinistra pronuncia, in un clima di tumulti, alla Costituente nella seduta del 2 maggio 1947, giorno successivo a Portella, costituisce un po' il lancio ufficiale della sfida. Bersaglio del dirigente comunista non sono soltanto gli ambienti monarchici e mafiosi dell'isola, che in quei primi frangenti indica quali diretti responsabili del massacro, bensì anche "alti funzionari addetti alla polizia", alludendo anzitutto all'ispettore di PS Ettore Messana. Li Causi censura inoltre lo stesso ministro dell'Interno, che s'è affrettato a negare, con equivoca certezza, ogni politicità all'eccidio.
Tale esordio risente, ovviamente, della concitazione di quei giorni; nondimeno è indicativo d'un percorso plausibile, che viene meglio esplicitato in occasioni successive. Alla seduta della Costituente del 15 luglio, infatti, comunisti e socialisti già espulsi dal governo, il leader siciliano si esprime con veemenza su possibili correità governative, mentre definisce gli equivoci di Messana, del resto tristemente noto nell'isola perché responsabile della strage di Riesi nel 1919, con trecidi contadini uccisi, massacratore in Grecia negli anni della guerra, implicato infine nella strana morte di un carabiniere.
In quella seduta, Girolamo Li Causi si assume il compito di illustrare l'interpellanza presentata assieme con Giuseppe Montalbano, Riccardo Lombardi, Virgilio Nasi, Umberto Fiore e Luigi Sansone al presidente del Consiglio e dai ministri dell'Interno e di Grazia e Giustizia sulla gravità della situazione in Sicilia.
Dove va il PCI? – Intervista a Berlinguer
Questa è certamente l’intervista più famosa sulla questione morale rilasciata da Enrico Berlinguer. La più citata, almeno, anche nei dibattiti odierni. Quella che poi porterà persino alcuni pezzi importanti del Pci a fargli una vera e propria guerra all’interno del partito, con plateali dissensi persino dalle colonne de l’Unità. Rispetto alle precedenti esternazioni sul tema, Berlinguer attacca anche il Psi di Craxi, colpevole di essersi uniformato ai metodi di governo della Democrazia Cristiana. In realtà questa intervista, pubblicata interamente su questo sito web per la prima volta il 10 giugno 2009 per i soli utenti registrati, non poneva l’accento solo sulla Questione Morale, ma su vari aspetti della politica del Pci, come dimostra il titolo dato da Scalfari.
«I partiti non fanno più politica», mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e, nella voce, come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della Tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di slogans politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall’Alpi al Lilibeo…
«No, no, non è così.», dice lui scuotendo la testa sconsolato. «Politica si faceva nel ‘ 45, nel ‘ 48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee, certo, scontri di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, ne era ricambiato.»
Discorso a Roma a conclusione della Conferenza femminile
VII Conferenza Nazionale delle Donne Comuniste Roma, 2-3-4 Marzo 1984
INTERVENTO CONCLUSIVO DEL COMPAGNO ENRICO BERLINGUER