Due pere...

In via Don Bosco. Una dimostrazione contro un proprietario di casa che ha sfrattato alcuni inquilini, povera gente, per aver modo di aumentare il fitto.
Guardie e carabinieri circondano la casa e tengono a bada i dimostranti, procedendo di tanto in tanto a degli arresti.
 
gavrocheGavroche1 immortale è in mezzo alla folla. Si ride degli agenti, e vuole far ridere.
Demolisce l'agente col ridicolo, il monello; vuole farlo apparire alla folla nella sua vera realtà, di ridicolo sbirro manzoniano, che la sghignazzata plebeamente gioconda fa squagliare, come il corvaccio spennacchiato dai pulcini petulanti.

Gavroche si pianta fieramente sulle due gambe aperte a compasso, guarda con intenzione i carabinieri e urla, come congestionato dall'eroismo, nel suo dialetto:
«Farò giustizia io per i poveri, con le due pere che ho in saccoccia».
 
I corvacci si guardano fra loro: il piano strategico è subito preparato. Due agenti in borghese si infiltrano fra la folla, e d'un tratto due braccia immobilizzano Gavroche, e due mani lo frugano febbrilmente dopo un: Ah! di soddisfazione.
«Le mie pere2 - grida il monello in italiano - le pere della mia colazione!».
I due agenti si guardano esterrefatti. Due pere, due prüss fanno schiattare dalle risa i presenti, mentre Gavroche se la dà a gambe gridando: «Arrestare un ragazzo perché ha due pere in tasca!».

  1. Gavroche: personaggio del romanzo I miserabili di V. Hugo, monello parigino beffardo e coraggioso che muore sulle barricate nel 1832.
  2. Gioco di parole tra pere, che in piemontese significa pietre, e prüss, che significa pere.
 

Giannino e Ghitina

Vicino a una grande foresta abitava un boscaiolo, con la moglie e i suoi due figli: il maschietto si chiamava Giannino e la femminuccia Ghitina.
Egli aveva poco da mangiare e quando nel paese ci fu una grande carestia, non riuscì neanche a guadagnarsi il pane quotidiano.
Una notte, mentre era a letto, questi pensieri lo preoccupavano tanto che non poteva dormire.
Sospirava, si voltava continuamente e finalmente disse alla moglie: «Che cosa sarà di noi? Come potremo nutrire i nostri poveri figli, se non abbiamo più nulla neanche per noi?».
«Sai cosa dobbiamo fare marito mio - rispose la moglie, - domattina, prestissimo, condurremo i bambini nella foresta, dove è più fitta; là accenderemo il fuoco e daremo a ognuno un pezzo di pane; poi ci recheremo al lavoro e li lasceremo soli.
Essi non troveranno più la strada per tornare a casa e ce ne saremo liberati». «No, moglie - disse il marito, - non lo farò; come potrebbe il mio cuore aver la forza di lasciare i miei bambini soli nella foresta, con le belve che accorrerebbero e li sbranerebbero?».
«Pazzo - disse la moglie, - moriremo dunque tutti e quattro e non ti resta che piallare le assi per le bare», e non gli lasciò pace finché non ebbe acconsentito. «Ma quanto mi fanno pietà quei poveri bambini!», concluse l'uomo. I due bambini non si erano potuti addormentare per la fame e avevano sentito ciò che la matrigna aveva detto al padre.
Ghitina pianse disperatamente e disse a Giannino: «Adesso è finita per noi». «Zitta, Ghitina - disse Giannino, - non accorarti, io saprò salvare ambedue».
E appena i vecchi si furono addormentati, egli si levò, indossò il suo vestitino, aprì la porticina di dietro e uscì pian piano.
Gli apparve la luna chiarissima e i piccoli sassolini di selce che erano dinanzi alla casa splendevano come dei soldini nuovi.
Giannino si chinò e ne riempì la tasca tanto quanto ce ne stava.
Poi rientrò e disse a Ghitina: «Cara sorellina, consolati e dormi tranquilla: tutto andrà bene per noi», e si rimise a letto.
Appena si fece un po' di luce, prima ancora che spuntasse il sole, la donna svegliò i due bambini: «Levatevi, infingardi, dobbiamo andare nella foresta a far legna».
Poi diede loro un tozzerello di pane e disse: «Ecco qualcosa per il pranzo, ma non mangiatelo prima, perché non avrete altro».
Ghitina si mise il pane sotto il grembiule, perché Giannino aveva i sassolini in tasca.
Poi tutti insieme si misero in cammino per la foresta. Dopo che ebbe camminato un po', Giannino silenziosamente si fermò e guardò indietro parecchie volte verso la casa.
Disse il padre: «Giannino, tu guardi qualcosa e rimani indietro; sta' attento e muoviti». «Oh, papà - disse Giannino, - guardo il mio gattino bianco, che è seduto sopra il tetto e mi vuol dire addio».
La donna disse: «Stupido, non è il tuo gattino, è il sole che appare sul camino».
Ma Giannino non guardava per nulla il gatto, e invece ogni volta gettava sulla strada una delle pietruzze bianche di selce. Quando arrivarono nel folto della foresta, il padre disse: «Bambini, raccogliete legna, voglio accendervi un bel fuoco, perché non abbiate freddo».
Giannino e Ghitina portarono dei rami secchi fecero un mucchio a cui fu dato fuoco e quando le fiamme si alzarono, la donna disse: «Adesso, bambini, sedete vicino al fuoco e riposatevi; noi andremo a tagliare legna.
Quando avremo finito, ritorneremo e vi condurremo a casa». Giannino e Ghitina sedettero vicino al fuoco e, a mezzogiorno, mangiarono il loro tozzo di pane.
Poiché sentivano i colpi della scure, credevano che il loro padre fosse nelle vicinanze. Ma si trattava solo di un pezzo di legno che l'uomo aveva legato ad un albero secco e che il vento sbatteva qua e là.
Dopo che rimasero a lungo seduti, gli occhi per la stanchezza si chiusero ed essi si addormentarono profondamente.
Quando si svegliarono era già notte oscura. Ghitina cominciò a piangere e disse: «Come faremo ad uscire dalla foresta!».
Ma Giannino la consolò: «Aspetta ancora un po', fino a quando sorgerà la luna e allora ritroveremo la strada». Appena la luna piena apparve all'orizzonte, Giannino prese la sorellina per la mano e camminò seguendo la traccia delle pietruzze bianche che brillavano come soldini nuovi e che indicavano loro la via. Camminarono tutta la notte e giunsero a casa ai primi albori.
Bussarono alla porta e quando la donna capì che erano Giannino e Ghitina gridò: «Cattivi ragazzi, perché avete dormito tanto nella foresta?
Abbiamo creduto che non voleste più tornare a casa!». Ma il padre si rallegrò, perché il cuore gli si era spezzato per averli lasciati così soli nella foresta.
Poco tempo dopo la carestia tornò dappertutto e i bambini sentirono che la matrigna una notte, mentre erano a letto, diceva al padre: «Abbiamo consumato tutto, abbiamo solo una mezza pagnotta, e poi è finita. Bisogna portare via i bambini: li condurremo nella foresta, ma così in fondo, che non ritroveranno più la strada; altrimenti non c'è salvezza per noi».
All'uomo ciò pesava sul cuore ed egli pensava: «Sarebbe meglio che tu dividessi coi tuoi figli l'ultimo boccone di pane».
Ma la donna non voleva sentir ragioni, lo sgridò e lo rimproverò. Chi ha detto A, deve dire B, e poiché egli la prima volta aveva acconsentito, così dovette farlo anche la seconda volta. I bambini erano ancora desti e avevano sentito la conversazione.
Appena i vecchi si addormentarono, Giannino si levò di nuovo, per uscire e fare provvista di pietruzze bianche, come la volta precedente, ma la donna aveva chiuso la porta e non poté uscire. Ma consolò la sorellina ugualmente dicendole: «Non piangere Ghitina e dormi tranquilla; ce la caveremo anche questa volta».
All'indomani prestissimo, la donna fece levare i bambini, e diede loro un tozzo di pane, che però era anche più piccolo dell'altra volta.
Durante la strada Giannino sbriciolò la sua porzione in tasca e spesso si fermava a gettare un minuzzolo per terra.
«Giannino perché ti fermi e guardi indietro? - diceva il padre - va' diritto per la tua strada».
«Guardo la mia colomba che è sul tetto, e mi vuol dire addio», rispose Giannino.
«Pazzo - disse la donna, - non è la tua colombella, è il sole che appare sopra il fumaiolo».
Intanto Giannino buttava sulla strada i minuzzoli di pane.
La donna condusse i bambini nella parte più lontana della foresta, dove essi non avrebbero potuto scamparla.
Anche questa volta fu acceso un gran fuoco e la matrigna disse: «Rimanete seduti qui, e quando sarete stanchi potrete dormire un po'; noi andiamo a tagliar legna e stasera, quando avremo finito, verremo a prendervi». A mezzogiorno Ghitina divise il suo pane con Giannino, che aveva sparso il suo per la strada.
Poi si addormentarono e quando venne la sera, nessuno venne a cercarli.
Si svegliarono a notte buia e Giannino consolò la sorellina: «Aspetta un po' Ghitina, quando sorgerà la luna, vedremo i minuzzoli di pane che ho sparso, e ritroveremo la via per ritornare a casa».
Quando si levò la luna, si alzarono, ma non trovarono più neanche una briciola di pane poiché le migliaia di uccelli che volavano nella foresta e nei campi, avevano beccato tutto.
Giannino disse a Ghitina: «Vedrai che troveremo la strada lo stesso», ma intanto non la trovarono. Camminarono tutta la notte e anche la giornata appresso, dall'alba al tramonto, ma non riuscirono a uscire dalla foresta; erano affamatissimi, perché avevano mangiato solo alcune bacche trovate per terra.
Quando furono così stanchi che le gambe non li potevano più portare, si sdraiarono sotto un albero e si addormentarono.
Erano già passati tre giorni, da quando avevano lasciato la casa paterna. Ricominciarono a camminare, ma si perdevano sempre più nel folto della foresta, e se non avessero avuto presto un aiuto, sarebbero morti di fame. Verso mezzogiorno videro un bellissimo uccellino bianco come la neve che, posato su un ramo, cantava così dolcemente che i bambini si fermarono per ascoltarlo.
Quando ebbe finito spiegò le ali e volò dinanzi a loro, ed essi lo seguirono, finché giunsero ad una casetta sul cui tetto si posò. Quando i bambini si avvicinarono videro che la casetta era fabbricata con pagnotte, ed era ricoperta di focaccine invece che di tegole, le finestre poi erano di zucchero candito.
«Ci avvicineremo - disse Giannino, - e faremo una mangiata straordinaria. Io mangerò un pezzo di tetto; tu, Ghitina, mangia un po' di finestra, chissà com'è dolce».
Giannino salì sul tetto e ne staccò un pezzetto per sentire se era saporito, mentre Ghitina si avvicinò ai vetri e cominciò a grattare.
Dall'interno una voce gridò: «Sgranocchia, sgranocchia. Chi raspa la mia casetta?». I bambini risposero: «Il vento, il vento, il figlio dell'aria», e continuarono a mangiare senza sconcertarsi.
Giannino, al quale il tetto pareva di ottimo sapore, ne strappò un grosso pezzo, e Ghitina staccò un intero sportello da una finestra, si sedette per terra e se la mangiò allegramente.
All'improvviso si aprì la porta e una vecchia decrepita, che si reggeva su una gruccia, uscì di soppiatto. Giannino e Ghitina si spaventarono così fortemente da lasciar cadere ciò che tenevano in mano.
Ma la vecchia tentennò la testa e disse: «Eh, cari ragazzi, chi vi ha condotto fin qua? Entrate in casa e restateci quanto volete, ché non vi capiterà nulla di male».
Li prese ambedue per la mano e li fece entrare nella casetta, dove c'erano grandi quantità di migliori cibi, latte e frittelle inzuccherate, mele e noci. Vi erano inoltre due bei lettini coperti di bianco, dove Giannino e Ghitina si coricarono, pensando di essere in cielo.
La vecchia li aveva accolti così perché era una cattiva strega, che attendeva al varco i bambini; perciò aveva costruito quella casetta di pagnotte, per adescarli.
Ma quando uno cadeva in suo potere, lo ammazzava, lo cucinava e se lo mangiava ed era quello un giorno di festa per lei.
Le streghe hanno gli occhi rossi e non possono vedere più in là del proprio naso, ma hanno un fiuto finissimo, come gli animali, e sentono all'odore quando si avvicina una creatura umana. Infatti, quando Giannino e Ghitina si erano avvicinati alla casetta, la malvagia femmina aveva sghignazzato e aveva detto con scherno: «Sono in mia mano, non mi scapperanno!».
Il mattino presto, prima che i bambini si fossero svegliati ella era già levata, e come li vide riposare così dolcemente, con le guance rosee e pienotte, mormorò dentro di sé: «Questo sì che sarà uno squisito boccone».
Ghermì quindi Giannino con le sue manacce secche e lo portò in un piccolo porcile che era chiuso da una cancellata; poteva gridare quanto voleva, a nulla gli avrebbe giovato.
La vecchia andò poi da Ghitina, le dette uno scossone per svegliarla e le gridò: «Levati, infingarda, porta l'acqua e cuoci qualcosa di buono per tuo fratello che si trova fuori nel porcile e deve ingrassare.
Quando sarà ben grasso, me lo voglio mangiare».
Ghitina cominciò a piangere disperatamente, ma era tutto inutile: dovette fare ciò che la malvagia strega voleva.
Per il povero Giannino fu preparato un magnifico pranzo, ma Ghitina ricevette solo degli avanzi.
Ogni mattina la vecchia zoppicava verso il porcile e gridava: «Giannino, caccia fuori un dito, perché senta se diventi grasso».
Giannino però cacciava fuori un ossicino, e la vecchia che aveva la vista appannata e non poteva vedere nulla, credeva che quello fosse il dito di Giannino e si meravigliava che il ragazzo non ingrassasse.
Passarono quattro settimane e Giannino rimaneva sempre magro; la vecchia non poté resistere dall'impazienza e non volle aspettare oltre.
«Olà, Ghitina - gridò alla bambina, - svelta, porta dell'acqua, Giannino, grasso o magro, lo macellerò e lo cuocerò domani», Ah, come gemeva la povera sorellina mentre doveva portare l'acqua, e quante lacrime le scorrevano sulle guance!
«Ahimè, chi ci aiuterà - esclamava, - almeno le fiere ci avessero divorato nella foresta, saremmo così morti insieme».
«Risparmia pure i tuoi lamenti - sghignazzava la vecchia, - tanto non ti gioverà a nulla». La mattina presto Ghitina dovette appendere fuori il paiolo e accendervi il fuoco sotto.
«Prima cuoceremo il pane - disse la vecchia, - ho già riscaldato il forno e preparato la pasta». Spinse la povera Ghitina verso il forno, dal quale sfuggivano violente fiammate. «Va' dentro - disse la strega, - e vedi se si è riscaldato giusto affinché possiamo infornare il pane».
Appena Ghitina fosse entrata, pensava di chiudere il forno e così la bambina sarebbe arrostita, ed essa se la sarebbe mangiata con Giannino.
Ma Ghitina capì quale intenzione avesse e disse: «Non capisco cosa debbo fare; come faccio ad entrare?». «Stupida oca - disse la vecchia, - l'apertura è abbastanza grande, come tu puoi vedere benissimo, anche io potrei entrarci!» si avanzò e cacciò la testa nel forno.
Ghitina, senza perder tempo, le dette una spinta in modo che la strega cadde dentro il forno, ne chiuse la porticina di ferro e mise il chiavistello.
«U, u, u», cominciò a ululare la vecchia che arrostiva in modo orribile; ma Ghitina scappò e la malvagia strega continuò a bruciare miseramente.
Ghitina corse direttamente da Giannino, aprì il porcile e gridò: «Giannino, siamo liberi, la vecchia strega è morta».
Giannino saltò fuori, come un uccello dalla gabbia, appena la porta gli fu aperta.
Come erano contenti i due bambini: si abbracciavano, ballavano il giro tondo, si baciavano!
E poiché non avevano più nulla da temere, entrarono nella casetta della strega, dove in ogni angolo c'erano bauli pieni di perle e di gemme. «Queste sono molto più belle delle pietruzze bianche», disse Giannino, e se ne riempì le tasche colme.
E Ghitina disse: «Anch'io voglio portare qualcosa a casa» e se ne riempì il grembiule. «Adesso però andiamo via - disse Giannino, - per uscire finalmente dalla foresta della strega».
Avevano fatto qualche ora di cammino, quando incontrarono un grosso fiume. «Non possiamo passare - disse Giannino, - non vedo né guadi né ponti».
«E qui non passano neanche battelli - rispose Ghitina, - ma vedo nuotare un'anitra bianca; se la prego, ci aiuterà a passare».
E gridò: «Anitrina, anitrina, siamo qui Giannino e Ghitina, nessun guado e nessun ponte portaci sulle tue bianche spalle». L'anitra accorse e Giannino si sedette sulle sue spalle, e pregò la sua sorellina di attaccarsi a lui.
«No - rispose Ghitina, - sarebbe troppo pesante per l'anitra, essa ci farà passare uno dopo l'altro».
La buona bestiolina fece così e quando i due bambini si trovarono felicemente sull'altra riva, e camminarono un po', la foresta diventava per loro sempre più nota e finalmente videro da lontano la loro casa paterna. Cominciarono allora a correre, entrarono dentro e si attaccarono al collo del loro padre.
L'uomo non aveva avuto più un'ora lieta da quando aveva abbandonato i figli nella foresta; la matrigna intanto era morta. Ghitina scosse il grembiule e perle e gemme saltarono intorno alla stanza; Giannino vuotò le sue tasche a manate piene.
Tutte le preoccupazioni ebbero fine da allora ed essi vissero insieme in grande gioia.
Il mio racconto è finito, là salta un sorcio, chi lo prende può cavarne una pelliccia grande grande.

I dodici fratelli

Una volta c'erano un re e una regina, che vivevano in pace l'uno con l'altro e avevano dodici figli, che però erano tutti maschi.
Or dunque il re disse alla regina: «Se il tredicesimo figlio che tu metterai al mondo sarà una bambina, uccideremo i dodici maschi affinché la ricchezza della bambina sia grande e il regno spetti a lei sola». Fece preparare dodici bare, che furono riempite di trucioli e in ciascuna pose un piccolo cuscino da morto e le fece portare in una camera ben chiusa, poi diede le chiavi alla regina e le ordinò di non parlare a nessuno della cosa.
La madre intanto sedeva tutto il giorno in grande malinconia, così che il più piccolo dei figli, che le stava sempre vicino e a cui ella aveva dato il nome biblico di Beniamino, le disse: «Cara mamma, perché sei così triste?».
«Carissimo figlio - ella rispose, - non te lo posso dire». Ma egli non la lasciò in pace, finché ella andò ad aprire la camera e gli mostrò le dodici bare piene di trucioli.
Quindi disse: «Mio carissimo Beniamino, tuo padre le ha fatte preparare per te e per i tuoi fratelli: se io metterò al mondo una bambina, egli vi ammazzerà tutti insieme e sarete seppelliti in queste bare».
Poiché ella piangeva mentre parlava, il figlio la consolò e le disse: «Non piangere, cara mamma; noi troveremo un rimedio e fuggiremo».

I tre omini della foresta

C'era un uomo, al quale morì la moglie, e una donna, alla quale morì il marito. L'uomo aveva una figlia, e anche la donna aveva una figlia.
Le due fanciulle si conoscevano e andavano insieme a fare delle passeggiate e poi si recavano in casa della donna. Questa disse una volta alla figlia dell'uomo: «Senti, di' a tuo padre che io lo sposerei volentieri; così tu potrai ogni giorno fare il bagno nel latte e bere del vino, mentre mia figlia si bagnerà nell'acqua e berrà acqua».
La fanciulla rincasò e raccontò al padre ciò che la donna aveva detto.
L'uomo disse: «Che devo fare? Sposarsi è una gioia, ma è anche un tormento».
Infine, non sapendo decidersi, si tolse una scarpa e disse: «Prendi questa scarpa, che ha la suola bucata, portala nel solaio, appendila a un grosso chiodo e versaci dentro dell'acqua. Se tiene l'acqua, riprenderò moglie, se la lascia sfuggire, non lo farò».
La fanciulla fece come il padre le aveva detto; ma l'acqua restrinse il buco, e lo stivale si riempì fino all'orlo. Ella annunciò al padre ciò che era successo.
Egli andò a vedere e quando vide che era così, si recò dalla vedova, la chiese in matrimonio e le nozze furono fatte.
Il giorno dopo, quando le due ragazze si furono levate, dinanzi alla figlia dell'uomo c'era latte per lavarsi e vino per bere, dinanzi alla figlia della donna, invece, acqua per lavarsi e acqua per bere.
Il secondo giorno c'era acqua per lavarsi e acqua per bere tanto per la figlia dell'uomo che per quella della donna.
E il terzo giorno c'era acqua per lavarsi e acqua per bere per la figlia dell'uomo, e latte per lavarsi e vino per bere per la figlia della donna; e così continuò nei giorni seguenti.
La donna odiava a morte la figliastra e non sapeva ogni giorno quale dispetto più cattivo farle.
Era anche invidiosa, perché la figliastra era bella e amabile, mentre la sua vera figlia era brutta e sgradevole.
Un giorno d'inverno, mentre tutto era duro come la pietra per il gelo e il monte e la valle erano coperti di neve, la donna fece un vestito di carta, chiamò la fanciulla e le ordinò: «Indossa quest'abito, va' nella foresta e portami un cestino di fragole; mi è venuta la voglia di mangiare le fragole».
«Per carità - rispose la fanciulla, - le fragole non ci sono d'inverno, la terra è gelata, e la neve inoltre ha ricoperto tutto. E perché poi devo andare vestita di carta? Fuori fa così freddo, che anche il respiro gela; il vento vi soffierà dentro e le spine me lo strapperanno dal corpo».
«Vuoi dunque contraddirmi? - disse la matrigna. - Va' subito senza perdere tempo e non lasciarti rivedere prima di avere riempito il cestino di fragole».
Le diede poi un tozzo di pane secco e disse: «Questo ti basterà per tutto il giorno».
E pensò: «Fuori gelerà, morirà di fame e non mi verrà più dinanzi agli occhi».
La fanciulla era obbediente: indossò l'abito di carta e uscì col cestino. In lungo e in largo non c'era altro che neve, e non si vedeva neanche un ramoscello verde.
Appena entrò nella foresta vide una casettina dalla cui finestra guardavano tre omini. Ella augurò loro buon giorno e bussò alla porta con discrezione.
Essi le gridarono: «Avanti», ed ella entrò e si sedette su un banchetto vicino alla stufa, perché voleva riscaldarsi e mangiare la sua colazione.
Gli omini la pregarono: «Da' un pezzettino di pane anche a noi». «Volentieri», rispose; tagliò il tozzerello in due e ne diede loro la metà.
Essi le domandarono: «Cosa vieni a fare nella foresta, con questo tempo invernale in questo tuo abito così leggero?».
«Ahimè! - rispose, - devo cercare fragole, e non devo ritornare a casa se non porto questo cestino pieno».
Quando ebbe mangiato il suo pane, le dettero una scopa e dissero: «Spazza via la neve dinanzi alla porta».
Mentre ella era fuori i tre omini dissero tra loro: «Cosa dobbiamo regalarle, poiché è così gentile e buona e ha diviso con noi il suo pane?».
Il primo disse: «Io le regalo che ogni giorno diventi più bella».
Disse il secondo: «Io le regalo che le cadano dalla bocca delle monete d'oro ogni volta che dice una parola».
Il terzo disse: «Io le regalo che un re venga e se la prenda in moglie».
Intanto la fanciulla aveva fatto ciò che i tre omini le avevano detto, con la scopa aveva spazzato via la neve dinanzi alla casettina, e cosa credete che trovasse?
Delle vere fragole mature, che erano spuntate rosso cupe dalla neve. Piena di gioia le colse e ne riempì il cestino, ringraziò i tre omini, strinse loro la mano, corse a casa per portare alla matrigna le fragole.
Entrò e appena disse: «Buona sera», le cadde dalla bocca una moneta d'oro.
Raccontò poi chi aveva incontrato nella foresta e intanto ad ogni parola che diceva le cadevano dalla bocca le monete d'oro, così che presto il pavimento ne fu ricoperto.
«Vedi un po' che superbia - gridò la sorellastra - buttare via così l'oro», ma nel suo intimo era invidiosa, e volle anch'essa andare nella foresta a cercare fragole.
La madre disse: «No, mia cara figliolina, fa troppo freddo, tu potresti gelare». Ma poiché non le dava pace, cedette: le cucì e le fece indossare un magnifico abito di pelliccia e le dette del pane imburrato e delle focaccine da mangiare lungo la strada.
La fanciulla andò nella foresta e si diresse subito verso la casettina. I tre omini di nuovo guardavano fuori, ma non li salutò neppure e, senza guardarli e senza salutarli, entrò sgarbatamente nella stanza, si sedette vicino alla stufa e cominciò a mangiare il suo pane imburrato e le focaccine.
«Danne anche a noi», gridarono gli omini. Ma ella rispose: «Non basta neanche per me, come potrei ancora darne agli altri?».
Quando ebbe finito di mangiare, le dissero: «Ecco una scopa, fa' pulizia per noi dinanzi alla porta».
«Spazzate voi stessi - rispose, - io non sono la vostra serva».
Quando poi vide che non le volevano regalare nulla, andò via.
I tre omini dissero tra loro: «Cosa dobbiamo regalarle? È così sgarbata e ha un cuore cattivo e invidioso, che non si rallegra del bene altrui».
Il primo disse: «Che ogni giorno diventi più brutta».
Il secondo disse: «Che per ogni parola che dice, le salti un rospo dalla bocca».
Il terzo disse: «Che muoia di morte orribile».
La fanciulla cercò fuori le fragole, ma non ne trovò, e indispettita tornò a casa. Appena aprì la bocca e volle raccontare a sua madre ciò che le era successo nella foresta, a ogni parola le saltò dalla bocca un rospo, così che tutti avevano ribrezzo di starle vicino.
La matrigna si irritò ancora di più e quindi pensava solamente come potesse procurare tutti i guai possibili alla figlia dell'uomo, la cui bellezza cresceva ogni giorno.
Finalmente prese un paiolo, lo mise sul fuoco e vi fece bollire una rete. Quando fu bollita, l'appese alle spalle della povera fanciulla, le diede anche una scure con la quale doveva andare sul fiume gelato, fare un buco nel ghiaccio, e farci scivolare la rete.
Ella obbedì, andò e a colpi di scure aprì un buco nell'acqua e mentre batteva con la scure arrivò una magnifica carrozza, in cui sedeva il re. La carrozza si fermò e il re disse: «Figlia mia, chi sei e cosa stai facendo?».
«Sono una povera fanciulla e devo far raffreddare questa rete». Il re ne ebbe pietà e come vide quanto essa fosse bella, le disse: «Vuoi venire in carrozza con me?».
«Oh, sì, volentieri», rispose, poiché faceva molto freddo, e perché così si sarebbe allontanata dagli occhi della matrigna e della sorellastra.
Salì nella carrozza e se ne andò col re, e appena giunta al castello, furono celebrate le nozze con grande splendore, così come l'omino aveva augurato alla fanciulla. Dopo un anno la regina mise al mondo un figlio, e quando la matrigna ebbe notizia della sua grande felicità, andò con sua figlia al castello e si presentò come per farle visita.
Ma quando il re si allontanò e rimasero sole, la malvagia femmina prese la regina per la testa, sua figlia la prese per i piedi, la sollevarono dal letto e la gettarono dalla finestra nel fiume che scorreva presso il castello. Quindi la vecchia cacciò nel letto la sua orribile figlia e la coprì fino ai capelli.
Quando il re ritornò e volle parlare con sua moglie, la vecchia gridò: «Zitto, zitto, non bisogna parlarle, ella è in un bagno di sudore, per oggi dovete lasciarla tranquilla».
Il re non vide niente di male in tutto ciò e il giorno dopo di primo mattino ritornò per parlare alla moglie, ma quando questa rispose, ad ogni parola saltava dalla sua bocca un rospo, mentre prima uscivano monete d'oro.
Egli domandò cosa fosse avvenuto, e la vecchia disse che ciò avveniva per la grande sudata, ma che tutto sarebbe passato più tardi.
Nella notte lo sguattero vide un'anitra che veniva a nuoto nello sciacquatoio dicendo: «O re che cosa fai? Dormi o sei desto?».
E poiché nessuno rispondeva, disse: «Che fanno i miei ospiti?». Lo sguattero rispose: «Essi dormono sodo». Domandò di nuovo: «Che fa il mio figliolino?».
Egli rispose: «Dorme nella bella culla». Allora l'anitra riprese l'aspetto della regina, dette il latte al bambino, dondolò la culla, lo coprì poi riprese l'aspetto di anitra e nuotò via dallo sciacquatoio.
Lo stesso successe la seconda notte. La terza notte ella disse allo sguattero: «Vai dal re e digli che prenda la sua spada e che mi colpisca tre volte sul capo».
Lo sguattero corse a dirlo al re; questi venne con la spada, tre volte colpì il fantasma e al terzo colpo ecco che gli stava dinanzi la moglie fresca, viva e sana come era stata prima.
Il re era pieno di gioia, ma tenne la regina nascosta in una camera fino alla domenica quando sarebbe stato battezzato il figlio.
Appena il battesimo fu celebrato, disse alla vecchia: «Che cosa si merita un uomo che prende uno dal letto e lo butta nell'acqua?».
«Niente di meglio - rispose la vecchia, - che questo: il malvagio sia messo in una botte tutta irta di chiodi che sia buttata nell'acqua dall'alto della montagna».
Disse il re: «Tu hai pronunziato la tua sentenza». Fece portare una botte e vi fece mettere dentro la vecchia con la figlia; il terreno fu ben spianato e la botte lanciata per la china, finché rotolò nell'acqua.

Il re dei ranocchi

Nei tempi antichi viveva un re le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che lo stesso sole, che pure ha visto molte cose, si meravigliava ogni volta che i suoi raggi le sfioravano il volto.
Vicino al castello del re c'era una grande e oscura foresta e in mezzo alla foresta, sotto un vecchio tiglio, c'era una fontana; quando la giornata era troppo calda, la figlia del re andava nella foresta e si sedeva sull'orlo della fresca fontana e quando si annoiava prendeva una pallina d'oro, la lanciava in aria e la riprendeva; questa pallina era il suo balocco preferito.
Ora accadde una volta che la pallina d'oro non ricadde nella manina, che ella tendeva in aria, ma invece le cadde vicino, per terra, e rotolò nell'acqua.
La figlia del re la seguì con gli occhi ma la pallina sparì e la fontana era profonda, così profonda che non se ne vedeva il fondo. Ella cominciò a piangere e a singhiozzare sempre più forte e non poteva consolarsi.
Mentre così gemeva qualcuno le gridò: «Che cosa hai, figlia del re? Tu ti lamenti in modo che anche i sassi si devono commuovere».
Ella guardò di dove veniva la voce e vide un ranocchio, che aveva messo fuori dall'acqua il suo testone orribile. «Ah, sei tu, vecchio saltatore - rispose, - io piango per la mia pallina d'oro che mi è caduta nell'acqua».
«Stai tranquilla, non piangere - disse il ranocchio, - io rimedierò benissimo, ma cosa mi darai se ti ridò il tuo balocco?».
«Tutto ciò che vuoi, caro ranocchio - rispose la figlia del re, - i miei vestiti, le mie perle, le mie gemme, anche la corona d'oro che ho in capo».
Ma il ranocchio disse: «I tuoi vestiti, le tue perle, le tue gemme e la tua corona d'oro non le voglio, ma se tu m'amerai, e io diventerò il tuo compagno e amico nel gioco, e siederò vicino a te al tuo tavolino, e mangerò nel tuo piattino d'oro, e berrò dal tuo bicchierino, e dormirò nel tuo lettino; se tu mi prometterai tutto questo, andrò in fondo all'acqua e ti riporterò la pallina d'oro».
«Sì, sì - rispose lei, - ti prometto tutto ciò che vuoi se mi riporti la mia palla».
Ma pensava: «Che cosa chiacchiera questo ranocchio sciocco?
Egli sta nell'acqua coi suoi simili e gracida, e non può essere compagno degli uomini».
Il ranocchio, appena avuta la promessa, immerse la testa, si tuffò e dopo pochi minuti risalì a nuoto: aveva la pallina in bocca e la gettò nell'erba.
La figlia del re era piena di gioia, quando rivide il suo balocco, lo raccolse e andò via di corsa.
«Aspetta, aspetta - gridò il ranocchio, - portami con te, io non posso correre come te».
Ma non gli giovò a nulla gridarle dietro il suo quak quak quanto più forte poté!
Ella non sentiva, corse a casa e poco dopo aveva dimenticato il povero ranocchio che ritornò a tuffarsi nella fontana. Il giorno dopo, mentre la giovinetta col re e con tutti i cortigiani era seduta a tavola e mangiava nel suo piattino d'oro, si sentì qualcosa che, plic, plic, plic, plac, saltellava su per la scala di marmo; appena giunto su, bussò alla porta e gridò: «Figlia del re, la più giovane, aprimi!».
Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma appena ebbe aperto, vide il ranocchio seduto dinanzi alla porta.
Chiuse la porta frettolosamente e si sedette di nuovo a tavola; ma era piena di angoscia. Il re si accorse facilmente che il suo cuore batteva forte e disse: «Figlia mia, che cosa temi; forse un gigante sta dietro la porta e vuole rapirti?».
«No - rispose lei, - non è un gigante, ma, ahimè, un brutto ranocchio».
«Che cosa vuole questo ranocchio da te?».
«Caro babbo, ieri ero nella foresta vicino alla fontana e giocavo; la mia pallina d'oro cadde nell'acqua. Poiché piangevo, il ranocchio me l'ha ripescata e poiché egli lo domandava, io gli promisi che egli sarebbe diventato il mio compagno, ma io non pensavo nemmeno che egli potesse uscire dall'acqua. Adesso è fuori e vuole raggiungermi».
In quel momento il ranocchio bussò per la seconda volta e gridò: «Figlia del re, la più giovane, aprimi, non sai che cosa ieri mi hai promesso presso l'acqua fresca della fontana? Figlia del re, la più giovane, aprimi».
Il re disse allora: «Ciò che hai promesso, devi mantenere, va' ad aprire».
Ella andò e aprì la porta; il ranocchio balzellò dentro, sempre vicino ai suoi piedi, fino alla sua sedia. Poi si accovacciò e gridò: «Sollevami fino a te».
Ella esitò, ma il re comandò di farlo.
Appena il ranocchio fu sulla sedia, volle essere sollevato fin sul tavolo, e quando vi si trovò, disse: «Spingimi più vicino il tuo piattino d'oro, perché mangiamo insieme».
Ella lo fece, ma si vedeva bene che non lo faceva volentieri.
Il ranocchio mangiò di gusto, mentre a lei ogni piccolo boccone andava di traverso.
Infine il ranocchio disse: «Ho mangiato a sazietà e sono stanco, perciò portami nella tua cameretta, e metti in buon ordine il tuo lettino di seta, perché ci metteremo a dormire».
La figlia del re si mise a piangere e sentiva ribrezzo per il ranocchio freddo, che non ardiva neanche toccare, e che doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re montò in collera e disse: «Lui ti ha aiutato quando ne avevi bisogno, adesso non lo devi disprezzare».
Allora ella lo prese con due dita, lo sollevò e lo pose in un angolo della sua cameretta.
Ma appena si fu messa a letto, egli balzellò vicino e disse: «Sono stanco e voglio dormire bene come te; prendimi su o chiamo tuo padre».
Allora ella per la prima volta divenne cattiva, lo sollevò in alto e lo scagliò con tutte le forze contro la parete. «Così avrai pace, orribile ranocchio», disse.
Ma quando l'animale ricadde sul pavimento non era più un ranocchio, ma un figlio di re, con begli occhi amorevoli, che per volontà del padre divenne il caro compagno e marito della fanciulla.
Egli le raccontò di essere stato incantato da una cattiva strega e che nessuno aveva potuto liberarlo dall'incanto della fontana, solo lei aveva potuto farlo.
All'indomani sarebbero partiti insieme per il suo regno.
Quindi si addormentarono e il mattino dopo, appena spuntò il sole, arrivò una carrozza tirata da otto cavalli bianchi, che avevano la testa adorna di piume di struzzo ed erano legati con catene d'oro. Dentro la carrozza c'era il valletto del giovane re, il fedele Enrico.
Il fedele Enrico si era talmente addolorato quando il suo signore era stato trasformato in ranocchio, che aveva fatto saldare intorno al suo cuore tre strisce di ferro perché non scoppiasse per il dolore e la disperazione. La carrozza doveva trasportare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico fece salire dentro la coppia, si sedette anch'egli dentro ed era pieno di gioia per la liberazione.
Dopo che ebbero fatto un pezzo di strada, il figlio del re sentì un crac dietro di sé, come se qualcosa si fosse rotto. Si voltò e disse: «Enrico, la carrozza si spezza».
«No, signore, non è la carrozza, è una fascia del mio cuore che era in gran dolore perché voi eravate nella fontana, perché voi restavate un ranocchio».
Ancora una volta e un'altra ancora si sentì un crac e sempre il figlio del re pensava che la carrozza si spezzasse.
Ma si trattava solo delle strisce di ferro che saltavano dal cuore del fedele Enrico, che era felice perché il suo signore era finalmente libero dall'incantesimo.

La figlia di Maria

Dinanzi a una grande foresta viveva un boscaiolo con la moglie; avevano un'unica figlia di tre anni. Ma erano così poveri, che non avevano neanche il pane quotidiano e non sapevano che cosa dare da mangiare alla bambina.
Un mattino il boscaiolo, pieno di preoccupazioni, andò nella foresta a lavorare e mentre spaccava la legna gli apparve una grande e bella donna che aveva una corona di stelle lucenti sulla testa e gli disse: «Io sono la vergine Maria, la madre del bambino Gesù; tu sei povero e bisognoso, dammi tua figlia, voglio prenderla con me, essere sua madre e pensare a lei».
Il boscaiolo obbedì, andò a prendere la bambina e la consegnò alla vergine Maria, che se la portò su nel cielo. Lassù ella era felice; mangiava marzapane, beveva latte dolce, i suoi vestiti erano d'oro e gli angioletti giocavano con lei.
Quando ebbe compiuto quattordici anni, la vergine Maria la chiamò e le disse: «Cara figlia, devo fare un lungo viaggio, prendi in custodia le chiavi per le tredici porte del regno dei cieli; dodici di queste porte tu le puoi aprire e osservare gli splendori che vi sono contenuti, ma la tredicesima, che si apre con questa chiavettina, ti è proibita; guardati bene dall'aprirla, perché altrimenti sarai infelice».
La giovinetta promise di essere obbediente e appena la vergine Maria fu partita, cominciò a visitare gli appartamenti del regno dei cieli; ogni giorno aprì una porta, finché ebbe visitato le dodici consentite.
In ognuna era seduto un apostolo, che era circonfuso di un grande fulgore e la giovinetta gioiva soprattutto della magnificenza e dello splendore e gli angioletti, che sempre la accompagnavano, gioivano con lei.
Restava solo da aprire la tredicesima porta proibita ed ella ebbe un gran desiderio di sapere che cosa ci fosse nascosto e disse agli angioletti: «Non voglio aprire tutta la porta e neanche entrar dentro; la aprirò appena appena, per vedere un pochino attraverso la fessura».
«No, no - dissero gli angioletti - sarebbe un peccato; la vergine Maria lo ha proibito, e ciò potrebbe essere la tua infelicità».
Ella rimase silenziosa, ma la curiosità non si placava nel suo cuore, rodeva e beccava dentro e non la lasciava in pace. E quando gli angioletti se ne andarono via, pensò: «Sono sola e posso dare una sbirciatina dentro; nessuno saprà ciò che ho fatto».
Scelse la chiavetta e quando la trovò la infilò nella serratura e quando fu infilata, la girò. La porta si spalancò ed ella vide la trinità seduta nel fuoco e nella luce.
Rimase immobile per un momento, e osservò tutto con stupore, poi avvicinò un po' il dito a quello splendore e il dito divenne tutto d'oro.
Subito provò un'angoscia fortissima, chiuse la porta violentemente e corse via. L'angoscia non l'abbandonò più: qualsiasi cosa si mettesse a fare, il cuore le batteva violentemente in continuità; anche l'oro rimase nel dito e non andò via, per quanto ella lo lavasse e lo strofinasse.
Non molto tempo dopo la vergine Maria ritornò dal suo viaggio. Chiamò a sé la giovinetta e le domandò le chiavi del cielo.
Quando ella le consegnò il portachiavi, la vergine la guardò negli occhi e le domandò: «Hai aperto la tredicesima porta?».
«No», rispose la giovinetta. Allora Maria le pose la mano sul cuore, sentì come batteva forte e capì benissimo che il suo ordine era stato trasgredito e che la porta era stata aperta.
Le domandò ancora una volta: «Davvero non l'hai fatto?».
«No», rispose la giovinetta per la seconda volta. Maria le guardò il dito che per aver toccato il fuoco celeste era diventato dorato, vide che aveva peccato e per la terza volta domandò: «Non l'hai fatto?».
«No», rispose la giovinetta per la terza volta. Allora la vergine Maria disse: «Tu non mi hai obbedito, e inoltre hai mentito; non sei più degna di stare nel cielo».
La giovinetta cadde in un sonno profondo e quando si svegliò giaceva sulla terra, in un luogo desolato e deserto.
Avrebbe voluto gridare ma non riuscì ad emettere alcun suono. Saltò in piedi e avrebbe voluto fuggire, ma dovunque si volgeva, era sempre trattenuta da spesse siepi di spine, che non poteva attraversare.
In quella solitudine nella quale era rinchiusa, c'era un vecchio albero internamente vuoto che doveva essere la sua abitazione. Vi si introdusse quando venne la notte e vi dormì e vi trovò rifugio contro la tempesta e la pioggia; ma era una vita desolata e quando ella pensava a come era stato bello abitare nel cielo quando gli angeli giocavano con lei, piangeva amaramente.
Suo unico cibo erano radici e bacche selvatiche che cercava nello spazio che le era concesso.
Nell'autunno raccolse le noci e le foglie cadute dagli alberi e le portò nel cavo dell'albero; le noci erano il suo cibo invernale e quando venne la neve e il gelo, si rifugiò tra le foglie per non gelare, come una povera bestiolina.
Dopo poco tempo i suoi abiti si stracciarono e un lembo dopo l'altro cadde dal corpo.
Appena il sole tornò nuovamente caldo, uscì fuori e si sedette dinanzi all'albero: i suoi lunghi capelli la ricoprivano da ogni parte come un mantello.
Così passò un anno dopo l'altro ed ella sentì tutti i guai e le miserie del mondo.
Una volta, quando gli alberi di nuovo si erano ricoperti di tenero verde, il re del paese cacciava nella foresta e inseguiva un capriolo e poiché questo era fuggito nella boscaglia che si chiudeva in quel punto, egli smontò da cavallo, allontanò i cespugli uno dall'altro e si aprì una via a colpi di spada.
Quando finalmente riuscì a penetrare dove i cespugli erano più fitti, vide seduta sotto un albero una meravigliosa fanciulla che era ricoperta fino ai piedi dai suoi capelli biondi.
Egli rimase immobile a guardarla per lo stupore poi le rivolse la parola e disse: «Chi sei? Perché ti trovi in questa solitudine?».
Ella non rispose perché non poteva aprire la bocca. Il re domandò ancora: «Vuoi venire con me nel mio castello?».
Ella fece solo un piccolo cenno col capo. Il re la prese nelle sue braccia, la mise in groppa al cavallo e tornò con lei a casa; appena giunto al castello la fece vestire di belle vesti e le diede tutto a profusione.
E sebbene ella non potesse parlare, tuttavia era così bella e gentile che egli la amò di tutto cuore e non passò molto tempo che la sposò. Era passato circa un anno quando la regina mise al mondo un figlio.
La notte dopo, mentre giaceva sola nel letto, le apparve la vergine Maria e le disse: «Vuoi dirmi la verità e confessare che hai aperto la porta proibita?
Ti riaprirò la bocca e avrai di nuovo la parola, ma se perseveri nel peccato negando ostinatamente, allora ti porterò via il bambino».
Per un momento fu concesso alla regina di rispondere, ma ella rimase impenitente e disse: «No, non ho aperto la porta proibita».
Allora la vergine Maria prese il neonato nelle braccia e sparì con lui. Il giorno seguente, quando non si trovò il bambino, tra la gente corse un mormorio.
Si diceva che la regina era una mangiatrice di uomini e che aveva ammazzato essa stessa il proprio figlio. Ella sentì tutto e non poteva smentire, ma il re non volle crederci poiché l'amava molto.
Un anno dopo la regina partorì un altro figlio.
Nella notte nuovamente la vergine Maria entrò nella sua camera e disse: «Vuoi riconoscere che hai aperto la porta proibita? Ti restituirò il primo figlio e ti scioglierò la lingua; ma se perseveri nel peccato e neghi, allora ti porterò via anche questo bambino».
La regina rispose ancora: «No, non ho aperto la porta proibita», e la vergine Maria le prese il bambino dalle braccia e se lo portò nel cielo.
Al mattino, poiché anche il secondo bambino era sparito, la gente disse ad alta voce che la regina se lo era divorato e i consiglieri del re proposero di tradurla dinanzi a un tribunale.
Ma il re l'amava tanto che non volle creder nulla e condannò i consiglieri parte a morte e parte a pene corporali perché non riparlassero più di questa mostruosità.
L'anno seguente la regina partorì una bellissima bambina; la vergine Maria apparve di notte per la terza volta e le disse: «Seguimi!», la prese per la mano e la condusse nel cielo e le mostrò i suoi due figli precedenti che sorridevano e giocavano a palla col globo terrestre.
La regina era felice di vedere i suoi figli e Maria disse: «Il tuo cuore si è intenerito? Se tu riconosci di aver aperto la porta proibita, io ti restituirò i due figliolini».
Ma la regina per la terza volta rispose: «No, non ho aperto la porta proibita».
Maria la sprofondò ancora sulla terra e le portò via anche la bambina.
Al mattino seguente, quando il fatto divenne noto, tutta la gente gridò ad alta voce: «La regina è una mangiatrice d'uomini, bisogna condannarla a morte».
Il re non poté più contraddire i suoi consiglieri. Fu costituito un tribunale e poiché la regina non poteva rispondere e difendersi, fu condannata a morire sul rogo.
La legna fu accatastata e la regina, legata fortemente a un palo, vi fu collocata sopra; quando il fuoco cominciò a bruciare tutt'intorno, si fuse il duro ghiaccio della superbia, il suo cuore fu smosso dal pentimento e pensò: «Potessi almeno prima della morte confessare che ho aperto la porta»; allora le ritornò la voce, ed ella gridò: «Sì Maria l'ho fatto!».
Subito dal cielo cominciò a piovere e le fiamme del rogo si spensero.
Apparve alla regina una luce e scese la vergine Maria che aveva i due figliolini ai lati e la bambina in braccio.
Le parlò amorevolmente: «A chi si confessa e si pente dei suoi peccati, i peccati gli sono rimessi».
Così dicendo le consegnò i tre bambini, le sciolse la lingua e le dette la felicità per tutta la vita

Le tre filatrici

C'era una fanciulla pigra, che non voleva filare; la madre poteva dirle tutto ciò che voleva, non riusciva ad ottenere nulla.
Infine la madre una volta perdette la pazienza, andò in collera e la bastonò, e la figlia si mise a singhiozzare rumorosamente.
Per caso proprio allora, la regina passava di là.
Fece fermare la carrozza, entrò in casa e domandò alla madre perché avesse bastonato sua figlia, tanto che le sue strida si sentivano fin dalla strada.
La madre si vergognò di far sapere che sua figlia era un'infingarda e perciò disse: «Non la posso staccare dal fuso, vuole sempre, eternamente filare ed io sono povera e non posso procurarle il lino».
La regina rispose: «Per me non c'è miglior piacere che ascoltare il ronzio del fuso e sentir filare; affidatemi vostra figlia, verrà con me nel castello; ho tanto lino che essa potrà filare finché ne avrà voglia».
La madre ne fu tutta contenta, e la regina condusse via con sé la ragazza.
Arrivate al castello, la regina si recò con la ragazza al piano superiore che dal pavimento al soffitto era pieno di bellissimo lino.
«Filami questo lino - le disse, - e appena avrai finito, sposerai il mio figlio maggiore; è vero che sei povera, ma io non ci bado; la tua laboriosità assidua è una dote sufficiente».
La fanciulla si spaventò dentro di sé poiché non avrebbe potuto filare quel lino neanche se fosse vissuta trecento anni e ogni giorno stesse seduta dalla mattina alla sera. Appena sola, si mise a piangere e per tre giorni non toccò neanche il lino.
Al terzo giorno venne la regina e avendo visto che ancora nulla era stato filato si meravigliò.
La ragazza si scusò dicendo che per il grande dolore provato per essersi allontanata dalla casa di sua madre non aveva potuto ancora incominciare. La regina la consolò, ma nell'andare via le disse: «Domani, però, devi cominciare a lavorare».
Appena sola la ragazza non sapeva più cosa pensare e cosa fare e piena di tristezza si avvicinò alla finestra.
Vide avanzarsi tre donne delle quali la prima aveva un piede piatto molto largo, la seconda aveva il labbro inferiore così grosso che pendeva fino al mento, e la terza aveva il pollice largo e schiacciato.
Esse si fermarono dinanzi alla finestra, guardarono in su e domandarono alla fanciulla che cosa avesse.
Ella si lagnò delle sue difficoltà; allora le tre donne le offrirono il loro aiuto e le dissero: «Se tu ci inviterai alle tue nozze, non avrai vergogna di noi e ci chiamerai tue zie, facendoci sedere alla tua mensa, noi ti fileremo il lino e in brevissimo tempo».
«Molto volentieri - rispose, - venite dentro e incominciate a lavorare».
Fece entrare le tre strane donne e nella prima camera fece un vuoto dove esse si collocarono e cominciarono a filare.
Una traeva il filo e calcando il piede faceva girare la ruota, l'altra bagnava il filo con la saliva, la terza lo torceva e lo batteva col dito sul tavolo e batteva così spesso che presto una quantità di filo era caduto per terra ed era filato con molta finezza.
Quando veniva la regina le tre filatrici si nascondevano e la ragazza le mostrava ogni volta la gran quantità di filo, tanto che essa non finiva di lodarla.
Quando la prima camera fu vuota si passò alla seconda e poi alla terza e anche questa rapidamente fu sgombrata.
Allora le tre donne si congedarono e dissero alla ragazza: «Non dimenticare la tua promessa, sarà la tua felicità!».
Quando la fanciulla mostrò alla regina le camere vuote e la montagna di filo, questa fece preparare le nozze.
Il fidanzato era tutto contento perché avrebbe avuto una moglie così laboriosa e così valente e le fece molti complimenti.
«Ho tre zie - disse la ragazza, - e poiché esse mi hanno fatto molti favori, mi dispiacerebbe dimenticarle nella felicità; permettetemi dunque che le inviti alle nozze e che esse si siedano alla mensa con noi».
La regina e il fidanzato dissero: «Perché non dovremmo permetterlo?».
Quando si fece la festa le tre donzelle arrivarono vestite bizzarramente, e la sposa disse: «Siate le benvenute, care zie».
«Ah! - esclamò lo sposo, - che strane amicizie tu hai!».
Quindi si avvicinò a quella che aveva il piede largo e piatto e domandò: «Per quale ragione avete un piede così largo?». «Per calcare la ruota del filatoio - rispose, - per il gran calcare!».
Lo sposo andò dalla seconda e domandò: «Perché avete il labbro così pendente?».
«Per il gran leccare - rispose, - per il gran leccare». Domandò alla terza: «Perché avete il pollice così schiacciato e largo?».
«Per il gran torcere il filo - rispose, - per il gran torcere il filo». Il figlio del re inorridì e disse: «La mia bella sposa non deve mai più toccare un filatoio». Così la cattiva filatrice di lino non ebbe più dispiaceri.

Nevina [Biancaneve e i sette nani]

Una volta, si era nel cuore dell'inverno e i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina sedeva alla finestra incorniciata di ebano nero e cuciva. E mentre cuciva e guardava la neve, si punse con l'ago un dito e tre goccioline di sangue caddero sulla neve. Il rosso sulla candida neve appariva così bello che ella pensò: «Potessi avere un figlio bianco come la neve, rosso come il sangue e nero come il legno del cornicione».

Poco dopo le nacque una figlioletta che era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera di capelli come l'ebano e fu perciò chiamata Nevina. Ma appena nata la bambina, la regina morì.
Un anno dopo il re prese un'altra moglie. Era una bella donna ma superba e arrogante e non poteva soffrire di essere superata in bellezza da chiunque. Essa possedeva uno specchio meraviglioso; quando vi si specchiava e si ammirava, diceva:
«Specchietto, specchietto alla parete, chi è la più bella di tutta la terra?».
Lo specchio rispondeva: «Signora, voi siete la più bella del mondo».

E la regina era contenta perché sapeva che lo specchio diceva la verità.
Intanto Nevina cresceva e diventava sempre più bella e quando ebbe sette anni era bella come un giorno sereno e più bella della stessa regina.
Quando questa domandò una volta al suo specchio: «Specchietto, specchietto alla parete, chi è la più bella di tutto il mondo?».
Lo specchio rispose: «Signora regina, voi siete la più bella qui, ma Nevina è mille volte più bella di voi!».
La regina inorridì e divenne gialla e verde per la gelosia.

Da quel momento quando vedeva Nevina, il cuore le si stringeva, tanto odiava la fanciulla. L'invidia e la boria crebbero come la gramigna nel suo cuore, sempre più grandi, tanto che non riusciva a trovar pace né di giorno, né di notte.
Chiamò un cacciatore e gli disse: «Porta via la bambina nella foresta; non la voglio più vedere dinanzi ai miei occhi. La devi ammazzare e portarmi come prova i suoi polmoni e il fegato».
Il cacciatore obbedì e condusse fuori Nevina, ma quando ebbe snudato il pugnale con cui ammazzava i cervi e stava per trafiggerle il cuore innocente, Nevina scoppiò in pianto e disse: «Ahimè, caro cacciatore, lasciami vivere; io correrò nella parte più selvaggia della foresta e non tornerò più a casa».

E poiché ella era così bella, il cacciatore ne ebbe pietà e le disse: «Scappa, dunque, povera bambina», e pensò: «Le bestie selvagge non tarderanno a divorarti». E tuttavia gli pareva che gli avessero levato una pietra dal cuore, perché non sarebbe riuscito ad ucciderla. E poiché un cinghialetto passava di là saltando, lo pugnalò, gli tolse i polmoni e il fegato e li consegnò alla regina come prova. Il cuoco dovette cucinarli in salsa piccante e la malvagia femmina li mangiò pensando di mangiare i polmoni e il fegato di Nevina.

Intanto la povera bambina era sola nella grande foresta ed era così angosciata che guardava tutte le foglie degli alberi e non sapeva cosa fare. Cominciò a correre. Corse sopra le pietre aguzze e tra le spine e le bestie selvagge le saltavano accanto, ma non le facevano nulla. Corse, finché i piedi poterono correre, fin quando venne la sera e vide una casettina ed entrò per riposarsi.

Nella casettina tutto era piccolo, ma così grazioso e pulito da non dirsi. C'era un tavolino coperto da una bianca tovaglia con sette piattini, ogni piattino con un cucchiaino e più in là sette coltellini, sette forchettine e sette bicchierini. Lungo la parete erano disposti sette lettini uno vicino all'altro, ricoperti da lenzuola bianche come la neve.

Nevina, che aveva molta fame e molta sete, mangiò da ogni piattino un pochino di legumi e di pane e bevette da ogni bicchierino una goccia di vino, perché non voleva prendere tutto ad uno solo. Poi, siccome era molto stanca, si distese su un lettino, ma nessuno era adatto per lei: uno era troppo lungo, l'altro troppo corto, solo il settimo andava bene; vi si coricò e si addormentò.

Quando venne la sera, arrivarono i padroni della casettina: erano sette nani che spaccavano e scavavano nei monti per trovare metalli. Essi accesero i loro sette lumicini e quando la casettina fu illuminata guardarono se vi era stato qualcuno poiché tutto non era nell'ordine che avevano lasciato.

Il primo disse: «Chi si è seduto sulla mia seggiolina?».
Il secondo: «Chi ha mangiato nel mio piattino?».
Il terzo: «Chi ha preso un po' del mio panino?».
Il quarto: «Chi ha mangiato un po' dei miei legumi?».
Il quinto: «Chi ha infilato con la mia forchettina?».
Il sesto: «Chi ha tagliato col mio coltellino?».
Il settimo: «Chi ha bevuto dal mio bicchierino?».

Poi il primo guardò intorno e vide che sul suo lettino c'era un nastrino e disse: «Chi si è coricato nel mio lettino?».
Gli altri corsero ognuno al suo letto e gridarono: «Anche nel mio qualcuno si è coricato!».

Il settimo quando guardò il suo letto, vide Nevina, che vi era coricata e dormiva. Chiamò gli altri che accorsero e gridando per la meraviglia, portarono i loro sette lumini e illuminarono la fanciulla.
«Buon Dio, buon Dio - gridavano - che bella bambina», ed erano così contenti che non la svegliarono, ma la lasciarono continuare a dormire nel lettino. Il settimo gnomo dormì nel letto dei suoi colleghi, un'ora nel letto di ciascuno finché la notte passò.

Quando fu mattino, Nevina si svegliò e appena vide i sette gnomi, ebbe paura. Ma essi la trattarono amichevolmente e domandarono: «Come ti chiami?».
«Mi chiamo Nevina», rispose lei.
«Come sei venuta nella nostra casettina?», domandarono ancora gli gnomi.

Essa raccontò loro che la sua matrigna aveva comandato di ucciderla, ma che il cacciatore l'aveva risparmiata, e che allora aveva corso tutto il giorno fino a quando aveva trovato la loro casetta.
Gli gnomi dissero: «Se vuoi accudire alla nostra casa, fare la cucina, rifare i letti, fare il bucato, cucire, fare le calze e se manterrai tutto in ordine e pulito, puoi rimanere con noi e nulla ti mancherà».
«Sì - rispose Nevina, - di cuore, volentieri». E rimase con loro.

Ella tenne la loro casa in ordine; al mattino essi andavano nei monti a cercare metalli, specialmente oro, di sera tornavano a casa e trovavano tutto pronto per mangiare. Lungo il giorno la fanciulla rimaneva sola e i bravi gnomini l'avvertirono: «Sta' in guardia contro la tua matrigna, che presto verrà a sapere che sei qui: non fare entrare mai nessuno».

La regina intanto, da quando credeva di aver mangiato i polmoni e il fegato di Nevina, non pensava ad altro se non che era nuovamente la prima e la più bella di tutte, un giorno andò allo specchio e disse:
«Specchio, specchietto, che sei alla parete, chi è la più bella di tutto il mondo?».
E lo specchio rispose:
«Signora regina, voi siete la più bella qui, ma Nevina sui monti, presso i sette gnomi, è mille volte più bella di te».

La regina si sbigottì perché sapeva che lo specchio non poteva mentire e capì che il cacciatore l'aveva ingannata e Nevina era ancora viva. E meditò, meditò, come potesse ucciderla; da quando sapeva di non essere la più bella del mondo, l'invidia non le lasciava più pace. Quando ebbe concluso le sue meditazioni, si tinse il viso e si vestì come una vecchia merciaiola ambulante: era del tutto irriconoscibile.

Così conciata andò verso i sette monti, giunse alla casettina degli gnomi, bussò alla porta e gridò: «I begli oggetti, comprate, comprate!».
Nevina guardò dalla finestra e disse: «Buon giorno, cara signora, cosa vendete?».
«Buone cose, bellissime cose - rispose, - nastri di tutti i colori», e ne mostrò uno che era intessuto di sete multicolori.
«Posso lasciare entrare questa onesta donna», pensò Nevina, tolse il catenaccio alla porta e comprò il grazioso nastro.
«Bambina - disse la vecchia, - che bel visino hai! Vieni, ti voglio annodare io il nastro proprio bene!».

Nevina non aveva nessuna malizia, le si pose innanzi e si lasciò accomodare il nuovo nastro; ma la vecchia annodò in fretta e così forte che a Nevina mancò il respiro e cadde a terra come morta. «Adesso sei stata la più bella», disse e si allontanò in fretta.
Non molto dopo, verso sera, i sette gnomi tornarono a casa. Ma come si spaventarono quando videro la loro cara Nevina che giaceva a terra e non si muoveva, irrigidita, come fosse morta!
La sollevarono e quando videro che era allacciata troppo forte, tagliarono la cintura; ella cominciò a respirare un poco, e piano piano ritornò in vita. Quando gli gnomi sentirono ciò che era successo, dissero: «La vecchia merciaiola non era altro che la malvagia regina; sta' in guardia e non lasciare entrare nessuno quando noi non siamo in casa».

Intanto la donna scellerata, appena tornata a casa andò dinanzi allo specchio e domandò:
«Specchio, specchietto, che sei alla parete, chi è la più bella di tutto il mondo?».
E lo specchio rispose: «Signora regina, voi siete la più bella qui, ma Nevina sui monti, presso i sette gnomi, è mille volte più bella di voi».

Tutto il sangue affluì al cuore della regina, tanto fu sbigottita quando seppe che Nevina era tornata in vita.
«Adesso però - disse, - voglio inventare qualche cosa che la perderà definitivamente». E con l'arte delle streghe che ella conosceva, costruì un pettine avvelenato.
Quindi si travestì e prese l'aspetto di un'altra vecchia. Andò sui sette monti, in casa dei sette gnomi, bussò alla porta e gridò: «Begli oggetti, comprate, comprate!».
Nevina guardò fuori e disse: «Andate, andate via, io non devo aprire a nessuno».
«Ma vedere ti sarà almeno permesso», disse la vecchia, prese il pettine e lo sollevò in alto. Il pettine piacque tanto alla fanciulla che si lasciò sedurre e aprì la porta.
«Ti voglio io stessa pettinare per benino». La povera fanciulla non pensava a niente di male e lasciò fare alla vecchia, ma appena il pettine fu piantato fra i capelli, il veleno operò e la fanciulla cadde a terra priva di sensi.
«Oh portento di bellezza - disse la malvagia femmina, - adesso è finita per te». E se ne andò via.

Per fortuna era quasi sera e i sette gnomi tornarono presto a casa. Appena videro Nevina stesa a terra come morta, sospettarono della matrigna, cercarono attentamente e trovarono il pettine avvelenato; appena lo ebbero tolto, Nevina tornò in sé e raccontò ciò che era avvenuto. Essi l'avvertirono ancora di stare in guardia e di non aprire la porta a nessuno.

La regina andò dinanzi allo specchio e domandò: «Specchio, specchietto alla parete, chi è la più bella di tutto il mondo?».
E lo specchio rispose: «Signora regina, voi siete la più bella qui, ma Nevina sui monti, presso i sette gnomi, è mille volte più bella di voi».

Quando sentì che lo specchio parlava così, la regina ebbe un brivido, e tremò tutta per la collera. «Nevina deve morire - gridò - anche se dovesse costarmi la vita». Si recò in una stanza solitaria e del tutto segreta, dove non entrava mai nessuno e preparò una mela velenosissima. Di fuori era bella, bianca e rossa, così che a chi la guardava veniva l'acquolina in bocca, ma se se ne mangiava un pezzettino, si moriva.

Quando la mela fu pronta, si tinse la faccia e si travestì da contadina e se ne andò sui sette monti presso i sette gnomi.
Bussò alla porta; Nevina mise fuori il capo dalla finestra e disse: «Non posso lasciar entrare nessuno, i sette gnomi me l'hanno proibito».
«Non importa - rispose la contadina, - voglio liberarmi delle mie mele. Ecco, te ne regalerò una».
«No - disse Nevina, - non posso accettare nulla».
«Hai forse paura che sia avvelenata? - disse la vecchia. - Vedi, io taglio la mela in due: il rosso lo mangerai tu e il bianco lo mangerò io».

La mela era stata preparata in modo che solo la parte rossa era avvelenata. Nevina aveva voglia della bella mela e quando vide che la contadina la mangiava, non poté resistere più a lungo, stese la mano fuori e prese la metà avvelenata. Appena però ne ebbe un pezzettino in bocca, cadde a terra morta.

La regina la osservò con occhio crudele, ridendo rumorosamente e disse: «Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l'ebano! Questa volta gli gnomi non ti risveglieranno».
Appena a casa interrogò lo specchio: «Specchio, specchietto alla parete, chi è la più bella di tutto il mondo?».
E finalmente le rispose così: «Signora regina, voi siete la più bella del mondo».
Il suo cuore invidioso ebbe pace, così come un cuore invidioso può aver pace.

Gli gnomini, quando la sera tornarono a casa trovarono Nevina stesa per terra, e dalla sua bocca non usciva nessun respiro; era morta. Essi la sollevarono, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma nulla le giovò; la cara giovinetta era morta e rimase morta. La caricarono su un cataletto, si sedettero tutti e sette vicino là e piansero, piansero tre lunghi giorni.

La volevano seppellire, ma ella appariva fresca, come se fosse ancora viva, e conservava le sue belle guance rosse. Essi dissero: «Non possiamo seppellirla nella nera terra», e fecero costruire una bara trasparente di vetro, così che si poteva vedere da ogni parte; ve la coricarono e sopra vi scrissero in lettere d'oro il suo nome, e che era la figlia di un re. Posero quindi la bara sulla cima del monte e uno di loro rimaneva sempre vicino a custodirla. E anche gli animali venivano e piangevano Nevina, prima un gufo, poi un corvo e infine una colomba.

Or dunque Nevina giacque per lungo tempo nella bara di vetro e non si decompose, ma invece pareva che dormisse, poiché era sempre bianca come la neve, rossa come il sangue e coi capelli neri come l'ebano.
Accadde che un figlio di re attraversò la foresta e si fermò alla casa degli gnomi per passar la notte. Egli vide sul monte la bara di vetro con la bella Nevina dentro e lesse ciò che sopra vi era scritto a lettere d'oro.
E disse agli gnomi: «Datemi la bara e io vi darò il prezzo che vorrete».
Ma gli gnomi risposero: «Noi non la diamo per tutto l'oro del mondo».

Disse il figlio del re: «Allora regalatemela, perché io non potrò più vivere senza vedere Nevina; la onorerò e la custodirò come la mia cosa più cara».
Poiché parlò così gli gnomi ne ebbero compassione e gli dettero la bara. Il figlio del re la fece portar via sulle spalle dai suoi domestici.
Ora accadde che questi incespicarono in un cespuglio, e per l'urto il pezzettino di mela avvelenata che Nevina aveva tra i denti, le cadde sul collo. Poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio della bara di vetro, si rizzò e ritornò in vita.

«Ahimè, dove sono?», gridò.
Il figlio del re tutto lieto disse: «Sei con me», e le raccontò ciò che era successo, aggiungendo: «Io ti amo più di qualsiasi cosa al mondo; vieni con me nel castello di mio padre e sarai mia moglie».

Nevina accettò e andò con lui e le loro nozze furono preparate con la più grande magnificenza e splendore.
Alla festa fu invitata anche la malvagia matrigna di Nevina. Dopo che si fu vestita con abiti bellissimi, andò allo specchio e domandò:

«Specchio, specchietto che sei alla parete, chi è la più bella del mondo?».
E lo specchio rispose: «Signora regina, qui siete la più bella, ma la giovane regina è mille volte più bella di voi».

La malvagia femmina lanciò un'imprecazione e sentiva un'angoscia, un'angoscia che non voleva lasciarla. In principio non voleva assolutamente andare alle nozze, ma poiché il pensiero non la lasciava in pace, dovette uscire e andare a vedere la giovane regina. Appena entrò, riconobbe Nevina e per il dolore e la paura rimase di stucco e non poté più muoversi.
Ma già erano state poste ad arroventare sul fuoco un paio di scarpette di ferro, che furono prese con le tenaglie e le furono messe innanzi. Ella dovette infilare quelle scarpe roventi ai piedi e ballare, ballare finché cadde a terra morta.

 
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